L’Italia è eliminata, il Classic 2009 continua

BASEBALL, World Baseball Classic 2009

Vi propongo altre 2 Cartoline dal World Baseball Classic 2009. L’Italia viene eliminata e la prima Cartolina è ovviamente influenzata fortemente da questo fatto. Prima di leggere, focalizzatevi su questo: io scrivevo le cronache delle partite in tempo reale e tornavo poi a commentare con questi articoli, cercando di dare qualcosa di più della cronaca sportiva al lettore. Rileggendomi con distacco, mi rendo conto di aver cercato di compiere un esercizio decisamente spericolato per un giornalista: raccontare con onestà le emozioni di chi si sentiva componente della squadra ma cercando di mantenere l’autorevolezza del cronista. Sul finale, la butto ovviamente anche in ridere. E’ mio costume: io provo a raccontare la vita e nella vita si ride e si piange, non è un mistero e non bisogna aver paura di questo. Personalmente, sono più spaventato dall’idea di non rendermi conto dell’importanza del momento che sto vivendo. Sono ragionevolmente sicuro che con il Classic non è successo. Ricordo infatti la grande gioia dopo la vittoria sul Canada come se tutto fosse successo ieri…

12 marzo- Il Classic dell’Italia è finito, ma certe sensazioni resteranno per sempre nella nostra memoria

Ditemi pure che è comodo fare così, ma del World Baseball Classic dell’Italia ho deciso di portarmi a casa la gioia per la vittoria sul Canada.
L’emozione che mi ha dato (e mi continua a dare) ascoltare l’Inno di Mameli con addosso qualcosa di azzurro e una scritta Italia è una sensazione che capisco anche relativamente poco. Benchè sia orgoglioso di essere Italiano, io non sono esattamente quel che si dice un nazionalista. Però è una sensazione inebriante.
La gioia sportiva la capisco benissimo, perchè ho giocato e vinto e perso talmente tante partite di talmente tanti sport da aver provato un po’ tutte le sensazioni possibili. La gioia del tifoso la capisco altrettanto bene, anche se per ora ho sempre fallito nel tentativo di catturarla. Nel senso che dopo un trionfo della squadra del cuore ci si sente padroni del mondo, ma lo sport ha il difetto che prima o poi ogni trofeo conquistato viene rimesso in gioco.
Bene, la gioia successiva alla vittoria dell’Italia sul Canada è qualcosa di diverso e completamente nuovo. In Florida prima e a Toronto poi ho avuto l’onore di essere testimone di uno di quei piccoli miracoli che rendono la vita migliore. Ho avuto l’onore di vedere un gruppo formarsi, di capire fino in fondo cosa significa quella brutta (nel senso del suono che deriva dal pronunciarla) parola che è sinergia. Parola brutta, ma concetto meraviglioso e neanche facile da spiegare, tanto che gli economisti ricorrono alla paradossale espressione Effetto 2+2=5.
Della sera di lunedì 9 marzo 2009 voglio essere sicuro di ricordare tutto. A cominciare dal peso immane dello scatolone contenente il materiale da distribuire ai giornalisti canadesi, trascinato stoicamente fino all’ingresso dell’ascensore. Poi ci sono stati gli scambi di cortesie con i rappresentanti del Team Canada, che all’inizio del nono inning mi hanno addirittura augurato “Buona fortuna”. Le domande che definirei tendenziose: “Ma questa sarebbe la più grossa vittoria del baseball italiano?”. Ho pensato che cercavano di menare rogna, certo che l’ho pensato!
Di quella sera voglio assolutamente ricordarmi la pace interiore che ho provato incrociando il manager della nazionale Marco Mazzieri, perchè certo la sua dedizione a questo progetto merita soddisfazioni di questo genere. E voglio ricordare l’atmosfera che c’era nello spogliatoio degli azzurri. Perchè anche il personale, che con l’Italia ha lavorato solo quei pochi giorni, ha voluto quella vittoria.
Lunedì 9 marzo è arrivato fino al martedì. Con i cacciatori di autografi (costantemente appostati fuori dall’albergo delle squadre) che guardavano i portatori di quei giubbotti azzurri con occhi nuovi e le tante persone di origine italiana che per una volta avevano trovato uno sport diverso dal calcio per cui esultare e sentirsi orgogliosi.
Ma, come ho scritto prima, queste sono gioie difficili da catturare. Nello sport i trofei vinti si rimettono subito in palio e questo torneo non lascia respiro: fatta un’impresa (battere il Canada) sarebbe servito un miracolo (battere il Venezuela). E, puntualmente, il miracolo non è arrivato. La vita reale è così, c’è poco da fare. Certe cose succedono solo nei film con Tom Berenger e Charlie Sheen. Che magari a volte sono profetici (gli Indians, da perenni underdogs del baseball americano, divennero una delle squadre più vincenti degli anni ’90), ma sono pur sempre dei film.
Credo che per rendere l’idea del valore del Venezuela un modo comodo (magari brutale) sia fare la somma di quello che i suoi 9 titolari hanno guadagnato nella loro carriera. Si arriva a qualcosa come 312 milioni di dollari americani, un po’ meno di 600 miliardi delle vecchie lire. Facendo due conti sommari, si tratta del budget investito dalle varie Federazioni Baseball che si sono succedute dal 1953 ad oggi.
Mi direte che i miracoli, a volte, qualcuno li fa. Ad esempio, l’Olanda. Cosa devo aggiungere? Non avrei scommesso un centesimo su una vittoria dell’Olanda sulla Repubblica Dominicana (che schierava i suoi bei Tejada, Reyes, Ortiz e compagnia), figuriamoci quanto ritenessi possibile che l’Olanda di partite contro i dominicani ne vincesse 2 in pochi giorni. Non c’è che dire: è stata una grande impresa. E immagino che i miei amici olandesi, questi momenti, cercheranno di portarseli con sè per molto tempo a venire.

Un momento del batting practice dell’Italia prima dell’ultima partita degli azzurri al Classic 2009

Visto che in questa Cartolina sono stato un po’ malinconico e ho chiuso vagamente invidioso, provo a salutarvi sorridendo.
Quel che c’è dietro ad ogni partita del Classic è basato su una organizzazione incredibile. Tanto articolata, che a volte ci si compiace di quel che si è messo in piedi al punto di voler seguire uno schema, anche se sono a portata di mano soluzioni più facili.
Ad esempio, se si ha necessità di tradurre espressioni dall’Inglese all’Italiano e si convive da giorni con Italiani che parlano Inglese, sembrerebbe ovvio andare a chiedere a questi italiani un aiuto. Almeno, fino a quando per l’aiuto gli Italiani in questione non dovessero iniziare ad emettere regolare fattura. E invece? Invece l’organizzazione fornisce un servizio di traduzione che dà sorprendenti gioie sul sito in Italiano del torneo:

L’Italia può contare su pullman del livello di Mike Piazza (Cos’aveva bevuto chi l’ha scritto? No, è solo che coach in Inglese vuol dire sia allenatore che corriera)

Si arriva addirittura al sublime nel menu delle cene preparate dall’ottimo staff (al quale non do colpe, sia chiaro, oltre a prepararli i piatti non è che deve anche necessariamente tradurne i nomi) della club house nel dopo partita. In questi giorni abbiamo mangiato:

1) Turchia di Canada arrosto (che in effetti è più creativo di un banale ‘tacchino canadese arrosto’)
2) Trimestre di pollo barbeque (Perchè l’Inglese è vero che è una lingua comoda, ma ogni tanto troppa comodità rende pigri; noi ad esempio diciamo un quarto intendendo la misura pari a “una fetta di torta su una torta di quattro fette” e chiamiamo trimestre “un quarto di anno”, visto che l’anno è fatto di 12 mesi e il trimestre ne comprende 3).

A volte, magari, più dell’organizzazione maniacale servirebbe del sano, old fashioned buon senso. 

Questa Cartolina ha il tono del più classico dei Diari del cronista itinerante, la fortunata rubrica che curavo (20012004, con un’appendice nel 2007) per Baseball.it e che trovate sintetizzata in 23 articoli su questo sito

13 marzo- Ultimo giorno a Toronto, con la nostalgia che si fa strada. Il Classic prosegue verso climi più miti

Posso confessare una cosa: seguire una manifestazione nella quale non c’è la nostra nazionale è meno faticoso. E’ ovvio: si soffre meno, gli orari da rispettare per inserire gli articoli sul sito sono meno rigorosi, c’è più tempo libero. Quindi ci sta che un diavoletto maligno possa qualche volta avermi indotto a pensare che, tutto sommato, rimanere da solo per seguire la fase finale di una manifestazione non era poi tutta questa disgrazia.
Ma giovedì 12 marzo, quando quello che era rimasto della delegazione italiana (i giocatori diretti allo Spring Training avevano salutato il giorno prima) si è avviato verso l’autobus che avrebbe scaricato tutti all’aeroporto, mi sono sentito un mezzo groppo in gola. Ci hanno poi pensato un paio di tecnici a farmi commuovere definitivamente, tornando sui loro passi per salutarmi.

No, non sto tentando di riscrivere il Libro Cuore. E nemmeno (spero) sto invecchiando. E’ che questa avventura davvero sarebbe stato bello se fosse continuata. Perchè non è tanto facile che si crei un’alchimia di squadra del genere che ho potuto verificare di persona.
Per me, in qualche maniera, l’avventura comunque continua. Come capo di abbigliamento pesante ho con me solo un giubbotto da dug out con le insegne Italia e questo mi rende piuttosto riconoscibile, quando me ne vado in giro. L’alternativa sarebbe uscire in maglione, ma con il blizzard che fischia da queste parti (oggi la temperatura non è salita sopra lo zero, ma la percezione era tipo -15, grazie al vento) sarebbe estremamente sconsigliabile.
Bene, vi posso dire che ovunque vada mi fermano per chiedere che ruolo ho con la nazionale italiana e per fare i complimenti per come ha giocato la nostra squadra. Non mi era mai successo e, devo dire, sono molto orgoglioso di essere ancora in Canada a ricevere questi complimenti.
Questa sera, ad esempio, sono reduce da una cena in una steak house (un po’ più lussuosa di quel che sembrava dall’esterno, se devo dirla tutta) e mi si è avvicinato un cameriere che ha raccontato di chiamarsi Pasquale. Non parlava Italiano, Pasquale, ma a vedere gli azzurri c’è andato. “E avevo anche il cappello e ho provato a cantare l’Inno”. Non parla Italiano, lo confermo, ma le parole erano scritte sul tabellone. Compreso il “Sì!” finale.
Tornando alla partenza del gruppo Italia, sarà stata l’emozione o qualcos’altro, ho lasciato entrambe le chiavi della stanza nella stanza stessa. Così ho provato prima a chiedere ad una donna delle pulizie di aprirmi la stanza (rifiuto sdegnato e comprensibile, ma ci ho provato), poi ho chiamato un energumeno della sicurezza che mi ha aperto la porta, non senza avermi chiesto un documento di identità.
Forse non dovevano lasciarmi solo…

Un punto di vista del centro di Toronto

Oggi ho passato qualche ora in giro per Toronto. E’ stato un giro istruttivo, innanzi tutto perchè mi ha fatto ricordare come mai non vengo mai a queste latitudini in Inverno. Quello di freddo è indubbiamente un concetto relativo. Ad esempio, una costante dei primi minuti che passo negli uffici della Federazione a Roma (ovviamente in inverno) è il confronto tra le temperature che ho lasciato in Valle Padana rispetto a quelle, per me tendenzialmente miti, dell’inverno romano. Ma qui in Canada il concetto di freddo diventa assoluto. Non c’è un passante senza copricapo e guanti e quasi tutti si armano anche di apposita protezione per le orecchie. Perchè quando il vento fa sul serio, avere delle protuberanze meno riparate del resto del capo è quanto meno seccante.
Non a caso buona parte della vita di Toronto si svolge al coperto. Oserei dire, nei sotterranei. Dove è stata sviluppata una rete di negozi che si è poi evoluta in un enorme centro commerciale (Eton Center). Si può anche non crederci, ma dopo qualche ora per le vie di Toronto si ha la necessità di andare al caldo. Di sentire il nostro corpo che recupera, a poco a poco, una temperatura più usuale.

Lo avevo già notato nello Stato di Alberta, durante il Mondiale Juniores: il Canada è nella sostanza una versione più tranquilla degli Stati Uniti. Anche l’accento delle persone si fa fatica a distinguerlo da quello americano, sarà per l’omologazione provocata dal fatto che ormai tutti vedono gli stessi programmi televisivi. Toronto conserva però un tocco europeo, reso evidente dal ricchissimo programma di eventi culturali. La popolazione poi è davvero multi etnica, al punto che quasi metà degli abitanti di questa enorme città (2.5 milioni di abitanti, 8.1 se si considera la cosiddetta Greater Toronto Area) è nata fuori dal Canada.
Il nome Toronto ha origine incerta, ma stando alle mie sommarie ricerche deriva da una lingua nativa americana. Gli Uroni, infatti, piantavano in una sezione del lago alberi al fine di realizzare trappole per pesci e gli Irochesi hanno ribattezzato la zona Tkaronto, che significa qualcosa come “Là dove gli alberi escono dall’acqua”.

Il World Baseball Classic lascia gli stadi al coperto (oltre a Toronto, anche Tokyo) e l’inverno e si trasferisce nelle più miti Florida e California. Noi ci aggiorniamo da San Diego.

2-CONTINUA

2 thoughts on “L’Italia è eliminata, il Classic 2009 continua

  1. Intendo: non mi fa paura mostrare i sentimenti che provo. Mi spaventa di più la possibilità di non rendermi conto che sto vivendo un momento importante

  2. Scusi mister, ma non ho afferrato il concetto che ha espresso in questa frase:
    Personalmente, sono più spaventato dall’idea di non rendermi conto dell’importanza del momento che sto vivendo.

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