Ho ritrovato questo articolo, che a suo tempo scrissi per il sito Softball Inside. Visto che ho appena rinnovato il mio tesserino da tecnico (conseguito superando regolarmente un esame), ho deciso di ripubblicarlo qui
Fabio Borselli (oggi Presidente del Comitato Nazionale Tecnici della FIBS, era il referente di Softball Inside; n.d.a.) posta molte cose sulla mia timeline di Facebook. Con l’ultima, mi ha molto stimolato.
La discussione che è sorta dalla lettura della lettera di Mike Matheny ai genitori di una squadra Little League mi coinvolge infatti parecchio: come appassionato, come giornalista professionista che si occupa di baseball da sempre, come tecnico e anche come ex bambino.
In quest’ultima veste sono stato anch’io una schiappa. Tra me e l’idea di fare l’atleta di professione c’erano in effetti 3 ostacoli: le mie non brillantissime doti atletiche (il mio cuore arriva relativamente presto ai 100 battiti al minuto, livello che per altro non supera di molto se svolgo un’attività regolare; sono insomma adatto a pratiche tipo il mezzofondo, ma non sarei mai stato tra i primi in una attività come il calcio, che richiede più scatti in fila), una certa tendenza ad amare il buon cibo e un’attitudine che mi rende difficile concepire uno sforzo quotidiano a fare sempre le stesse cose. Ho provato molti sport a livello agonistico: calcio, baseball, rugby, pallavolo, pallanuoto. Non ho sfondato in nessuno, ma mi sono parecchio divertito a farli tutti. Con il baseball, ultratrentenne ho avuto un ritorno di entusiasmo con il proliferare dei tornei di slow pitch, nei quali ho anche ottenuto più vittorie rispetto all’attività agonistica della mia adolescenza. Nella foto di copertina vedete quella che, al momento, risulta la mia ultima apparizione: sfida giornalisti-arbitri del 4 aprile 2016.
Ai tempi dello slow pitch (fine anni ’90 del secolo scorso) avevo rivalutato il patentino da allenatore rilasciatomi dal CNT (Comitato Nazionale Tecnici) nel 1989. Dal 1990 faccio il giornalista a tempo pieno, un tipo di attività che mal si concilia con quella di tecnico. In quegli anni ‘90 dovevo seguire il Parma baseball il venerdì e il sabato e il Parma calcio la domenica: non potevo certo pensare di portare in campo una squadra. Ma mi sono sempre sentito un tecnico di baseball e di softball. Ho consigliato l’acquisto di giocatori, fatto lunghe chiacchierate (a volte, anche polemizzando) con allenatori che hanno vinto campionati (Giulio Montanini, Rick Waits, Higino Velez, Giampiero Faraone, Gibo Gerali, Angelo Fanara, Marco Mazzieri, Renata Giansanti, Paolo Rizzardi, Tonino Micheli, Enrico Obletter…colgo l’occasione per ringraziare tutti della pazienza; Rizzardi e Micheli sono nel frattempo scomparsi, n.d.a.), diretto le mie partite dalla cabina radio. Ma quella dello slow pitch, si è rivelata un’occasione da manager.
E non ridete di me. Quello che voglio dire è che, per la prima volta, ho avuto l’occasione di gestire persone. Lo faccio più o meno da sempre nel lavoro, ma quella era di fatto la prima volta a livello di campo sportivo con degli adulti. Con i ragazzi, in effetti, vantavo l’esperienza del Servizio Civile (novembre 1989-ottobre 1990). Sia ai Gruppi Incontro che ai Centri Estivi il mio patentino CNT mi aveva permesso di insegnare i rudimenti del baseball (sono incidentalmente anche un bagnino, per quanto questo titolo lo abbia lasciato scadere, e insegnavo anche nuoto). Ci torno tra un attimo, per ora voglio sottolineare che come manager di slow pitch avevo qualche idea fissa. La prima era che tutti dovessero giocare in ogni singola partita e la seconda che l’unico autorizzato a parlare con gli arbitri ero io. Niente deroghe: chi si rivolgeva agli arbitri per parlare di un giudizio, veniva sostituito. Quando poi ci siamo trovati a giocare per vincere dei tornei, ho detto alla squadra che avrei cercato di mettere la miglior formazione.
Secondo me, ero avanti come manager. Mi viene in effetti da dire (provocatorio, qualcuno dice molesto, n.d.a.) che se i manager IBL (oggi Serie A1, n.d.a.) imponessero la regola numero 2, avremmo partite che durano il 40% in meno; al di là della provocazione, il manager dei Cardinals di St. Louis Matheny (che ha vinto le World Series, mica tornei di slow pitch…) la pensa come me. La regola numero uno (dato di fatto) è in vigore nei tornei Little League.
Essere il manager di una squadra di trentenni è ovviamente cosa diversa rispetto ad allenare una squadra di bambini, ma leggete le regole della Westford Youth Baseball and Softball League: al quarto posto c’è “gli arbitri sono esseri umani” e al quinto “Questa non è la Major League”.
Questo quinto punto è molto importante. “Non siamo la Major League” secondo me va letto come “questi risultati non hanno l’importanza di quelli di Major League”, ma anche “Non siamo certo bravi come la Major League”. E il quarto punto lo leggerei così: “Come sbagliamo noi, sbagliano gli arbitri”.
Nell’agosto del 2003 scrissi un articolo su Baseball.it dal titolo Lo sport delle mamme leonesse.
Ero reduce dal Mundialito (poi Mondial Hit), che definivo (forse con troppa enfasi) “la più grande manifestazione di baseball giovanile che sia mai stata disputata in Italia” e osservavo che avevo visto “poco talento”. Ero conscio che mi sarei attirato il “rimbrotto” di qualche mamma (“la mamma standard del giocatore di baseball è ferocissima e difende il pargolo come neanche una leonessa saprebbe fare”) e argomentavo che non trovavo normale che un ragazzino di 15 anni, facente parte di una squadra che ha perso dopo aver totalizzato più errori che valide, commentasse: “Ci siamo andati vicini”. Mi sembrava anche strano che un lanciatore sostituito venisse difeso ad alta voce dalla mamma leonessa e addirittura non normale che dichiarasse “Essere battuti ci sta, in campo ci sono anche gli avversari” (ai miei tempi, i ragazzini che perdevano di poco si mettevano a piangere…).
Continuavo, rivolgendomi alle mamme leonesse: “Un ragazzo di 15 anni non è ancora un giocatore e non è nemmeno un uomo e le sue prestazioni non vanno valutate come quelle di un campione di Serie A (a volte ritornano: nel 2003 non si chiamava ancora IBL, n.d.a.)”. Aggiungevo, e questa frase mi piace molto: “Alla sua formazione può servire che il ragazzo capisca che è bene correre, per raggiungere la posizione in campo”.
Questo articolo non mi attirò molte simpatie nella cerchia degli addetti ai lavori (“Come ti permetti, sei mica un tennico, sei un giornalista“).
E lo stesso era accaduto per un altro articolo, che avevo scritto nei soliti anni ‘90 per Tuttobaseball. Dopo aver seguito uno dei primi tentativi del Torneo delle Regioni, avevo detto chiaro che non capivo i tecnici che ordinano la rubata a ragazzi che non sanno bene come si scivola in seconda. Erano lì per dimostrare di essere bravi, o volevano davvero allenare una squadra? Perché allenare una squadra, portarla in campo, significa tirar fuori il meglio dai giocatori, non fare sfoggio delle proprie conoscenze.
Io non dirò (come Matheny, ma anche altri e non solo americani…) che per un tecnico la squadra “migliore da allenare” è una “squadra di orfani”. Non sono un fanatico del politically correct, ma quella frase può essere al massimo una battuta, non certo una tesi da sostenere in uno scritto. Certamente, sottolineo però che i genitori a interferire (né sgridandolo dopo brutte prestazioni, né giustificando suoi comportamenti arroganti nei confronti di un arbitro, né prendendo le sue difese se litiga con l’allenatore o un compagno o un avversario) non aiutano il ragazzo. Mio padre non mi ha quasi mai visto giocare e mai si è permesso di dimostrarmi comprensione quando mi lamentavo dei miei allenatori (quasi sempre) o degli arbitri (questo l’ho fatto comunque raramente).
Credo fermamente che il giorno numero uno di lavoro di un allenatore sia mettere regole. E la prima regola deve essere: non voglio vedervi sbuffare o rivolgere sguardi truci, meno che mai protestare, sui giudizi arbitrali.
Tornando a quando insegnavo i rudimenti del baseball (che sono i rudimenti anche del softball), lo sapete su cosa insistevo? Sulla importanza di saper tirare la pallina e sul fatto che se la palla non la vedi, difficilmente la colpirai con la mazza.
Torniamo ora alle schiappe. Da giocatore di baseball, io cambiai squadra perché giocavo poco. Ma questo, penso che ci stia. Se una squadra è competitiva, è normale che i più bravi trovino più spazio. Quello che non è normale, è che dal poco che giocano, i meno bravi arrivino a non giocare mai e che gli allenatori non si curino di loro in allenamento. Un ragazzino che si è avvicinato a uno sport, lo prova e poi decide di smettere è una sconfitta per tutti: per lui, per i genitori e per la società che lo ha tesserato. Perché se un ragazzino smette, vuol dire che non si diverte. E se noi non facciamo divertire i ragazzini, vuol dire che non sappiamo far bene il nostro lavoro di tecnici e di società, che è quello di insegnare un gioco. Secondo il dizionario, un gioco è “un’attività volontaria svolta a scopo ricreativo”. In Italiano (il che ci dà un’idea chiara di che mentalità prevale sui campi di qualsiasi sport…) si usa la stessa parola (gioco, appunto) per definire attività “ricreative” e altre “competitive e caratterizzate da obbiettivi e regole rigorosamente definiti”.
Io la penso così: quando si gioca una partita, il risultato conta. Credo sia un cattivo allenatore, quello che insegna che “il risultato non conta”. Conta eccome, solo non bisogna confondersi: non è lecito fare qualsiasi cosa per vincere e, soprattutto, se non arriviamo alla partita con ogni componente della squadra che si sente parte della squadra, sarà molto difficile vincere.
Mi sono dilungato più del previsto e quindi chiudo con un’ultima considerazione. Ho provato altri sport a livello di passatempo: sci, basket, immersioni subacquee, ciclismo, golf. Ho presto deciso che lo sci non fa per me (ci si alza troppo presto la mattina e si patisce freddo….), ho rinunciato al basket dopo una dolorosa distorsione a una caviglia e ho messo in stand by il golf perché porta via troppo tempo. Ma pratico regolarmente le immersioni e il ciclismo (cicloturismo sarebbe forse il termine più indicato, per quel che faccio io) ancora nella mia mezza età, alternandoli a lunghe camminate. Il vantaggio dell’età della ragione è che non si cercano più risultati, non c’è nessun allenatore a cui rendere conto e (almeno nel mio caso) si basta a sé stessi.