Jay Ventresca ha un sorriso perenne stampato sul volto. E si capisce perché, quando a mezza voce dice: “Sono molto fortunato”. Stavo per dirglielo io, che puntualizzo: “Infatti, sono molto invidioso”.
Jay è uno dei 6 dipendenti dell’Ufficio dei Boston Red Sox che si occupa delle relazioni esterne e con i media e mi sta accompagnando sul Green Monster, l’altissimo (oltre 11 metri) muro che delimita a sinistra il campo di Fenway Park a Boston. Dal 2003 sono stati ricavati posti a sedere sul Monster, che sono anche tra i più costosi dell’impianto. E’ una lezione basilare del marketing: fai che le potenziali debolezze diventino il tuo punto di forza.
Per me è un momento mitico. Mi faccio fotografare con lo stadio alle spalle e chiedo di essere certi che si legga “Fenway Park”. Preso dall’entusiasmo, perdo ogni freno inibitore e spiego a Jay che il suo cognome in Italiano identifica uno squalo, precisamente quello che loro chiamano blue shark (prionace glauca). In realtà, non è vero. Il caldo di questi giorni mi ha fatto fare clamorosamente confusione: lo squalo si chiama verdesca (molto comune nel Mediterraneo, ne hanno avvistata una anche il 10 luglio a Jesolo), mentre la ventresca è la parte pregiata del tonno rosso (la pancia), quella che viene abitualmente inscatolata sott’olio.
L’avevo notato che era perplesso, Jay. Ma ero assolutamente sicuro di quello che dicevo. Dovrò scrivergli per parlargli dell’errore e chiedergli se conosce Vincent Ventresca, l’attore che ha interpretato il professor Reed nella serie Boston Common.
Comunque, con Jay arriviamo in campo, dove quasi mi scontro con Shane Victorino che sta salutando alcuni ospiti, e poi saliamo in tribuna stampa. Attraverso Jay, mando saluti e ringraziamenti a Abby De Ciccio, la responsabile del settore e la persona con la quale sono in contatto da mesi. L’ho vista brevemente appena arrivato. Si era in effetti raccomandata di non arrivare oltre le 16.30 (la partita è alle 19), perché era molto impegnata, ma il traffico di Boston non ha collaborato. Per noi smalltown boy, i tempi della metropoli sono sempre ingannatori. Congedo Jay (“non è necessario che resti con noi ancora”) perché non vedo l’ora di tuffarmi nel negozio di souvenir dei Red Sox.
Fenway Park è uno stadio relativamente piccolo, visto che contiene poco meno di 40.000 spettatori. I Red Sox hanno ottenuto una impressionante serie di 820 tutto esaurito dal maggio 2002 all’aprile di quest’anno (gare di post season incluse) e le date che ho scelto io per visitare Fenway coincidono con la prima visita stagionale degli Yankees. The ultimate rivalry, la definiscono. E in effetti, non c’è posto per accomodarmi in tribuna stampa e nemmeno ci sono i presupposti per regalarmi un biglietto. Così, a suo tempo, mi era stato proposto di comprarli. Cosa che avevo accettato senza nemmeno pensarci.
Per la prima partita ci hanno sistemati dietro casa base e per la seconda a non molta distanza dal celeberrimo Pesky Pole all’esterno destro. Per tutta la durata delle partite, continuerò a voltarmi da una parte all’altra, per essere sicuro che i miei occhi possano trasmettere al cervello il numero maggiori di informazioni da immagazzinare. Mi ricorda la pubblicità di un parco tematico: hours of fun, years of memories.
Io ho iniziato a frequentare stadi di Grande Lega dal 1989 e tribune stampa dal 2000.
Ho una storia da frequentatore di stadi da calcio in Italia di una certa importanza e ho sempre provato meraviglia (ma anche parecchia invidia e, lo ammetto, un pizzico di vergogna) nel fare i paragoni. Recentemente questa meraviglia è aumentata di fronte all’incredibile modernità degli stadi più nuovi. Lo Yankee Stadium, ad esempio, ma soprattutto il Marlins Park di Miami, che ha ospitato un girone della seconda fase del World Baseball Classic. Non posso nemmeno trovare un paragone con gli stadi da calcio italiani. Parliamo proprio di pianeti diversi.
A Fenway (costruito nel 1912) tutto questo glamour ovviamente non c’è. Lo Yankee Stadium e, a ben pensarci, anche City Field dove sono appena stato, sono praticamente perfetti: costruiti in stile, hanno però servizi degni di un lussuoso centro commerciale e posti a sedere comodi come quelli di un cinema multisala. Fenway invece non usa i lustrini per sedurre. La struttura è di base, gli spazi sono stretti, spostarsi non è così agevole. Però a Fenway si respira la storia e si coglie immediatamente l’unicità. A City Field o allo Yankee Stadium, meno.
Fenway è come un bell’uomo che si siede in un bar dopo una giornata di lavoro. Fascinoso, ma inevitabilmente sudato e assolutamente vero. City Field è invece lo stesso bell’uomo che è passato a casa a farsi una doccia e a cambiarsi. Anche lui fascinoso, ma inevitabilmente profumato. Diciamo: sistemato per essere guardato con ammirazione. Oppure: Fenway è Pompei, City Field un parco tematico ispirato a Pompei. Non so se riesco a spiegarmi.
Ovunque ci sono foto e ricordi del secolo di storie fantastiche che sono accadute a Fenway. Alcune anche non tanto fantastiche, come l’aggressione (1967) di alcuni tifosi alla tribuna stampa.
Comunque, così testimonio quanto i Red Sox sono legati alla loro storia, ho avuto l’onore e la fortuna di essere presente al lancio cerimoniale della prima palla del grande Luis Tiant, il pitcher cubano dal caricamento creativo che ha lanciato sia per Boston (1971-1978) che per New York (1979-1980) e che però è andato in campo con la casacca dei Red Sox.
Ho usato prima il termine sudato. Sto cercando di ricordare le condizioni in cui era la mia maglietta blu quando sono entrato a Fenway Park. Era tutta striata di bianco (il sale?) per quanto avevo sudato. E con i pantaloni corti, ero nella mia versione Big Baby più pronunciata. Considerato anche questo (e soprattutto, che negli stadi americani dalla tribuna stampa è assolutamente sconveniente incitare una squadra o commentare ad alta voce), sono stato quasi contento di accomodarmi tra il pubblico dopo aver consumato il pasto a buffet a cui hanno accesso i giornalisti accreditati (al costo di 12 dollari, pagabili con carta di credito tramite una applicazione sull’i-pad dell’addetto) e lo staff dei Red Sox.
Seguita volentieri l’indicazione di svuotare degli avanzi il proprio piatto, mi sono accomodato al mio posto sulle tribune.
Dicevo prima che i posti a Fenway sono abbastanza stretti e non facilmente accessibili. Durante la prima partita, avevamo a fianco una doppia coppia che deve aver fatto non meno di 10 viaggi al bar e che si era sistemata in una maniera poco efficace. Uno dei 2 uomini era in mezzo tra le 2 ragazze, che lo hanno instupidito di chiacchiere, al punto che lui si è messo a fare comunella con un certo Drew, sistemato nella fila davanti. Drew veniva da Atlanta con la moglie e uno dei loro 5 figli. Era a Boston per un viaggio di piacere che aveva la serie tra Red Sox e Yankees al centro dell’agenda.
Durante la seconda partita invece mi sono trovato a fianco un certo Mike, che è arrivato a metà gara e, ultimato il rito delle foto ricordo, si è messo a chiacchierare con me. Saputo che vivo in Italia, mi ha comunicato che proprio quel giorno qualcuno lo aveva fermato per strada per chiedergli se parlava Italiano. A poca distanza da noi si trovava una squadra di Little League di Maui (Hawaii).
Fenway Park, insomma, è una vera e propria meta. Quasi una Cattedrale di quella Religione (ricordate Susan Sarandon in Bull Durham?) che si chiama baseball. E lo posso facilmente capire. A Fenway il baseball torna alle origini: si sta seduti un po’ più scomodi, ma the old game è al suo meglio, con l’atmosfera giusta e con quel sapore di gioioso melting pot che si respira leggendo le cronache di un tempo. Non va scordato che lo stadio da baseball è decisamente il primo luogo dove gli immigrati dell’inizio dello scorso secolo hanno capito di avere una lingua comune con gli americani.
Quando ci è stato comunicato che i Boston Red Sox volevano ringraziare gli Yankees per la solidarietà dimostrata dopo l’attentato alla maratona di aprile (allo Yankee Stadium i Sox erano stati accolti con Sweet Caroline, la canzone di Neil Diamond che identifica Fenway Park) e ho sentito le note di New York New York cantata da Frank Sinatra, allora mi sono commosso sul serio. E per non ostentare le lacrime agli occhi, mi sono recato al bar a ordinare una birra (si fa in tempo fino al settimo inning). Nonostante il mezzo secolo ormai imminente, mi è stata chiesta la carta d’identità: no exceptions!
Quando ho visto giocare i Red Sox, ammetto invece di non essermi iscritto immediatamente al fan club del loro allenatore Farrell, che mi sembra un po’ immobilista e un po’ troppo legato al piano per la partita studiato a tavolino. Non mette corridori in movimento, non c’è speranza che chieda di appoggiare per terra un bunt…ma non devo diventare ingeneroso: Farrell ragiona sulle percentuali di una stagione che dura 162 partite, io giudico situazioni che per me sono estrapolate dal contesto sul quale ragiona lui. Ma anche ammesso che non si giochi una serie di metà stagione come una di play off, a pelle non mi trovo tanto con Farrell, così come non mi trovavo con Francona, che pure ha vinto 2 World Series.
I Red Sox sono una delle rivelazioni di stagione, ma non mi convincono per come corrono sulle basi. Nella seconda partita, hanno subito addirittura un doppio gioco dal catcher degli Yankees Stewart, che è finito in mezzo al pubblico per completare una presa al volo e poi ha eliminato (tiro fantastico) il corridore che stava cercando di raggiungere la seconda con un pesta e corri.
Io ho visto i Red Sox vincere e perdere, ma alla fine la serie la porta a casa Boston con un fuoricampo di Mike Napoli alle riprese supplementari della partita giocata lunedì 22.
Ho appena applicato sul frigorifero di casa mia un magnete che proclama Red Sox Nation. Non si pensi a un concetto enfatico: a Fenway Park si è effettivamente trattati come una comunità, come la Red Sox Nation. I Red Sox esistono per i loro tifosi, che sono omaggiati e ringraziati e fatti sentire partecipi di un progetto. Che, naturalmente, non prescinde da Fenway.
Quando attorno al 1999 si parlava di ricostruirlo, erano state messe in vendita le magliette Save Fenway. Negli anni successivi i Red Sox hanno speso quasi 300 milioni di dollari per rimodernare il loro stadio centenario, nel quale hanno incastonato un modernissimo tabellone luminoso di ultimissima generazione senza che si noti che non è parte della struttura concepita nel 1912. Gli ingegneri che hanno progettato i lavori hanno garantito che questa struttura resisterà almeno altri 50 anni e la dirigenza dei Red Sox ci ha tranquillizzati tutti: Boston giocherà a Fenway a tempo indeterminato.
Una volta un amico di Boston mi regalò un biglietto per uno di quei posti in cima al Green Monster. Soffro terribilmente di vertigini e, dopo due inning di sofferenza e ad occhi chiusi, venni soccorso da un tizio che scambiò il mio biglietto con uno in prima fila vicino alla terza base. Mi ritrovai così a due sedili di distanza da un sconosciuto cui molti chiedevano l’autografo. Chiesi chi fosse: Stephen King.
Ho letto il libro di Stephen King sulla stagione delle prime World Series che chiusero la maledizione di The Babe (2004). Lui sosteneva che per i tifosi dei Red Sox la sua presenza portava sfiga….