Del ‘closer’ e di altre storie

All Star Game 2013, BASEBALL, SPORT

Con questo articolo concludo la serie ispirata dal viaggio negli Stati Uniti per seguire l’All Star Game 2013. Questa canzone di Jovanotti va ritenuta il commento finale

Quando Heyward, l’esterno centro dei Braves,  si è tuffato in avanti e ha raccolto la palla a un palmo da terra, mi sono un po’ dispiaciuto: se la palla fosse caduta, avrei visto 2 blown save nella stessa partita. La prima me l’aveva regalata Bobby Parnell, il closer dei Mets, concedendo 3 valide su 5 battitori affrontati.
Lo ammetto: io questa storia del closer non la capisco. Va bene tutto, va bene che bisogna programmare e avere un piano, ma togliere un lanciatore che sta tenendo a zero gli avversari per metterne uno che non siamo sicuri di cosa farà, mi sembra veramente assurdo. Essere sicuri di cosa il closer farà è ovviamente impossibile, ma in certi casi (tipo Mariano Rivera) possiamo essere anche ragionevolmente tranquilli.
Anche con Craig Kimbrell degli Atlanta Braves, apparentemente. Ha ottenuto 46 salvezze nel 2011 e 42 nel 2012. Ma una delle 31 di quelle (fino a oggi) raccolte nella stagione 2013, l’ha in realtà ottenuta Heyward con quel tuffo.
Lo spiego a un tizio di New York che è tifoso dei Braves e ostenta in metropolitana la sua fede (maglietta e attrezzatura per il Tomahawk Chop). Penso che in Italia, facendo la stessa cosa in uno stadio da calcio, rischierebbe la vita e un po’ mi intristisco. Ma sentiti i ragionamenti che fa, dico che quasi quasi un viaggio in metropolitana con gli ultras italiani del calcio se lo meriterebbe: “Meglio di così, cosa poteva fare Kimbrell”.

Perchè è così: da quando Tony La Russa ci ha convinti che usare un closer è il non plus ultra del piano, se il closer va in campo sull’1-0, riempie le basi e chiude la partita su una linea presa al volo e trasformata in doppio gioco, allora ha firmato una salvezza e fatto il suo lavoro. E Tony aveva, dopo tutto, a disposizione Eckersley, un closer quasi infallibile. Dico quasi, perchè il fuoricampo da Kirk Gibson (zoppo, per l’occasione) nelle World Series del 1988 non l’ho mica preso io.
Comunque, questo è il mio ennesimo anatema sull’uso del closer: capisco che in una stagione lunga 162 partite sia praticamente necessario specializzare i lanciatori del bull pen per evitare di usare sempre gli stessi (che è poi la tentazione che viene giustamente a un manager) e ucciderli di lavoro. Capisco ma, comunque, non approvo. Perchè è un modo per affidarsi a un piano prestabilito e togliersi anche la responsabilità di una delle scelte più difficili che capitano a un manager. Voglio dire: se all’ottavo il mio lanciatore ha affrontato 3 battitori e ottenuto 3 out comodi, per me inizia anche il nono. Il closer entrerà se serve e quando serve. E se non entra, domani lancerà lui l’ottavo e, se fa 3 out facili, inizierà anche il nono. Ammesso comunque che la favola del closer funzioni, ovvero che io abbia un formidabile rilievo che lancia strike sempre e sempre fortissimo, in una serie breve, in un torneo internazionale, in una finale l’omino in questione entra quando serve. Mica aspetto il nono, per poi magari scoprire che quel rilievo, che lancia sempre strike e sempre fortissimo, non l’ho usato.

In tribuna stampa al Citi Field l’aria condizionata è praticamente una persecuzione, al punto che molti giornalisti aprono la finestra per lasciar entrare un po’ di confortevole afa e non rovinarsi la salute.
Una tribuna stampa statunitense è molto diversa da una tribuna stampa italiana. I giornalisti qui son tutti su Twitter e nessuno parla. In Italia (e non solo nel baseball) si passa la partita a commentare. Non è raro che 2 colleghi finiscano con l’attaccar briga sulle scelte degli allenatori. E poi, che i giornalisti non siano tifosi (almeno nel calcio e almeno in Italia), è una balla a cui non crede nessuno.
Certo, esultare per un gol del Chelsea (che poteva eliminare la Juve dalla Champions League) come hanno fatto i cronisti (tifosi del Toro) a Torino non è bello (ma mandare in bestia Conte e il suo parrucchino, è sempre un atto meritevole…). E anche rispetto a capitare vicini a Carlo Pellegatti che ti spiega che ogni gol subito dal Milan è frutto di ingiustizie cosmiche c’è di meglio. Ma insomma, nemmeno rimanere imbalsamati per 3 ore…

Me ne sono andato da “City Field” senza che David Wright raggiungesse Mike Piazza al secondo posto tra i fuoricampisti di tutti i tempi in maglia New York Mets. Era il 22 luglio e a oggi (31 luglio) Wright è ancora a 219, Piazza a 220 e il primo resta Strawberry a 252.
Che squadra, quei Mets di Strawberry, The Kid Carter e Doc Gooden. Era il 1986, io stavo sveglio la notte per ascoltare le World Series per radio. E lasciamo perdere come sono finite quelle World Series (le vinsero contro i Red Sox di Clemens…erano quelle Ricordo di New Yorkdell’errore di Buckner…).
La sera prima ci hanno regalato il bambolotto bobblehead di Gooden. E il Doc era lì, allo stadio. Un tranquillo signore di mezza età che, quando è stato inquadrato, si è battuto il pugno sul petto e ha sorriso.

Prima di andarmene da New York ho pranzato con Davide, un new yorker giuliano con il quale avevo ripetutamente discusso via Facebook su Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle.
Non ho cambiato la mia idea (penso di Grillo tutto il male possibile) sul Movimento, ma il pranzo è stato molto piacevole. Ci ha permesso anche di conoscere Massimo Carbone, lo chef riminese di Brio NYC, un ristorante italiano sulla 61esima strada, nei pressi di Central Park.
Che come finale, è figo, che faccio sembrare che io sono di casa, vicino a Central Park. Ma a New York è così: dopo 2 giorni vai in giro senza cartina e ti senti a casa tua. Ma anche se ci abiti 20 anni, quando torni a Manhattan devi imparare tutto da capo.