L’incontro con i Gorilla

FICTION E PROGETTI EDITORIALI, le mie bestie

Il resoconto del mio viaggio africano si è concluso, ma il progetto Le mie bestie occupa una gran parte dei miei pensieri. Ho quindi recuperato qualche appunto del 2010 e parto sulle tracce dei Gorilla di montagna

Nell’autunno del 1988 ero a Napoli. Il giorno successivo sarei salito sulla corriera Napoli-Avellino per raccontare la partita di calcio tra il Parma e l’Avellino stesso. Ero solo, a Napoli ed era sabato sera, così sono andato in centro e sono entrato nel primo cinema che ho trovato. Proiettavano Gorilla nella nebbia, un film che avevo scelto perché parlava di Gorilla (animali per me abbastanza misteriosi, ma che apparivano in Tarzan e quindi mi interessavano) e perché la protagonista era Sigourney Weaver, una donna che consideravo fascinosa (anche se, riguardando le foto, non capisco sinceramente perché).
Trovai Gorilla nella nebbia piuttosto noioso e il personaggio di Sigourney Weaver abbastanza folle. La Weaver vinse, per la cronaca, un Golden Globe e fu candidata all’Oscar.

Dian Fossey è il 'suo' Digit
Dian Fossey è il ‘suo’ Digit

Non è un mistero che quel film (diretto da Michael Apted) era stato tratto dal libro dal titolo omonimo (Gorillas in the mist, in Inglese) di Dian Fossey, la donna che (per parafrasare la scrittrice Camilla de la Bedoyere e il titolo di un suo libro) ha amato i gorilla come nessun altro.
Fossey arrivò in Africa a poco più di 30 anni. In Tanzania conobbe Louis Leakey, che aveva da poco assunto Jane Goodall per una ricerca sugli Scimpanzé; nel 1966 Leakey le commissionò uno studio sui Gorilla di montagna, una specie a forte rischio di estinzione. Le osservazioni sul campo di Dian Fossey ebbero tale visibilità che il National Geographic mandò il fotografo Bob Campbell a documentarle.
Dian non era una donna facile. Ottenne risultati straordinari, svelando caratteristiche dei Gorilla che non erano immaginabili e raggiungendo con questi primati un grado di familiarità stupefacente. La sua foto con Digit, il giovane maschio che era il suo preferito e che nell’immagine dà l’impressione di abbracciarla, ha fatto il giro del mondo. C’è però da dire che Fossey creò anche non pochi problemi, come quando distrusse le trappole con cui i Batwa cacciavano, perché era successo che avessero ferito e anche ucciso i Gorilla.
Ho rivisto il film di Apted nel 2010 e devo dire che la Weaver ha reso davvero bene la personalità di Fossey, che a un certo punto probabilmente non riusciva più a distinguere tra i bracconieri (che uccidono i Gorilla per vendere i piccoli agli zoo o, addirittura, per fare souvenir con le mani e le teste dei primati) e le popolazioni che vivono nelle stesse foreste.
Il 26 dicembre del 1985 Dian Fossey venne uccisa con un panga, un’arma da taglio simile al machete. Aveva 53 anni e, a oggi, non solo non c’è un colpevole, ma nemmeno c’è un indiziato. A parte uno studente americano che, quando i capi d’accusa sono stati formulati, era già negli Stati Uniti. Farley Mowat, l’etologo oggi novantenne che è il biografo di Dian, ha sempre sostenuto che lo staff della Fossey deve per forza aver collaborato con l’omicida.
Voglio sottolineare ancora di più l’importanza del lavoro di Fossey: Il neuro endocrinologo Robert Sapolsky dedica un intero capitolo del suo Diario di un uomo scimmia (A primate’s memoir) ai risultati ottenuti da Dian e alla sua morte misteriosa. La giornalista investigativa americana Georgianne Nienaber, che ha molto scritto sull’Africa,  ha pubblicato il libro Gorillas dreams: the legacy of Dian Fossey.

Scena di vita in Uganda
Scena di vita in Uganda

Il 1° gennaio del 2010 sono salito di buon mattino su un aereo che mi ha portato da Windhoek, la capitale della Namibia, a Johannesburg (oltre 1.300 chilometri). Dal Sudafrica sono volato a Entebbe (altri 4.000). Se avessi volato direttamente da Windhoek a Entebbe, avrei risparmiato circa 1.000 chilometri, ma purtroppo le compagnie aeree non ne hanno voluto sapere, di coprire la tratta con un volo diretto. E in auto (mi dice Google) ci sarebbero voluti appena più di 17 giorni.
Quando sono arrivato a Entebbe, ero in stato comatoso e avevo vaghi ricordi di una festa dell’ultimo dell’anno in stile tedesco (inclusa molta birra e balli sfrenati al suono di Dancing with myself di Billy Idol, una delle canzoni più da sfigati che io conosca, ma anche una molto amata dai tedeschi). Avevo dormito appena 4 ore e continuavo a dare dollari a destra e a sinistra: il visto d’ingresso in Uganda costa 50 dollari e tutti pretendevano una mancia. Per fortuna, l’autista Norman si è preso cura di tutto appena sbucati agli arrivi. In un caldo limaccioso siamo arrivati alla Guesthouse della Gorilla Tours, l’azienda presso la quale avevo acquistato (da un agente che credevo fosse un uomo di nome Viggo, come l’attore, ma in realtà è una donna di nome Virgo) una permanenza in Uganda non proprio a buon mercato: 500 dollari a persona per 4 notti d’albergo (2 a mezza pensione, 2 bed and breakfast) e gli spostamenti e 500 dollari a persona per ottenere un permesso che consentisse di andare sulle tracce dei Gorilla. Dopo la cena (zuppa e pane) e le chiacchiere con il proprietario olandese della Guesthouse, annoto sul diario “Sono piuttosto insofferente”. Non c’è corrente in camera e ho l’impressione di essere in un posto pericoloso. Sinceramente, mi chiedo se ho fatto bene a venire in Uganda. L’unica cosa che so di questo paese è che, ad un certo punto della sua storia, è stato nelle mani di Idi Amin Dada, un feroce dittatore che si raccontava fosse addirittura cannibale. E poi l’olandese prima di dormire mi ha detto: “Se vi guardano, non preoccupatevi: è perché siete bianchi”.

Idi Amin Dada
Idi Amin Dada

Norman ha una grande qualità: lo vedi solo quando serve. Parla poco, quel poco sempre a proposito (He’s a gentleman, dice l’olandese). Se gli fai domande, risponde in maniera sintetica ma esauriente. Ci preleva alle 7 del mattino e annuncia che viaggeremo per 10 ore. L’olandese ci ha appioppato un ragazzo americano (che dichiara di essere proprietario di ristoranti, ma in verità fa una fatica micidiale a tirare fuori soldi) e comunicato che questo ci farà risparmiare 100 dollari a testa.
Da Entebbe percorriamo quella che sembra essere l’unica strada del paese (almeno: non ne sono indicate altre). Procediamo verso sud ovest, costeggiando il lago Vittoria. Dopo una località che si chiama Buwama, superiamo l’Equatore. In vendita ovunque c’è frutta, prevalentemente banane e ananas, che spesso vengono portati dalle coltivazioni ai mercati in bicicletta. Non capisco come riescano ad andare in bici, visto che in macchina prendiamo buche micidiali (african massage, ghigna Norman).
L’Uganda è un paese di quasi 35 milioni di abitanti e che nasce dall’unione dei Regni di Buganda, Ankole, Bunyoro e Toro. Venne abitata per la prima volta da una etnia pigmea di nome Twa, ma oggi la popolazione è prevalentemente Bantù. Nel 1894 il Re di Buganda Mwanga chiese di divenire protettorato britannico. Nel 1962 sarà proprio un Re di Buganda (ancor oggi il Regno mantiene una sua indipendenza nella Repubblica) a divenire il primo presidente dell’Uganda libera. Peccato che il suo Primo Ministro Apollo Milton Obote abbia assaltato il palazzo presidenziale e preso il potere nel 1966, salvo poi perderlo ai danni del celeberrimo Idi Amin nel 1971.
Idi Amin è stato un dittatore sanguinario e anche parecchio fanfarone. Certamente ha fatto torturare molte persone, ha sulla coscienza molti morti, ma non è certo che andasse preso sul serio quando diceva: “I miei nemici li taglio a pezzi e getto la carne ai coccodrilli, i loro peni li attacco alla cintura”.
Il suo cuoco Otonde Odera dice che quella del cannibalismo è stata “Solo una leggenda”. Ma negli 8 anni di potere di questo gigante semianalfabeta, la leggenda che parti di corpo umano fossero conservate nei frigoriferi di palazzo veniva ritenuta reale in maniera preoccupante. Idi Amin venne deposto comunque nel 1979, ad opera dell’Uganda National Liberation Army (UNLA) e della Tanzania.

Milton Obote
Milton Obote

Secondo me, più danni di Idi Amin ha combinato comunque Obote, che una volta (1980) tornato al potere ha trucidato almeno 300.000 persone, pur di mantenerlo nei confronti del neo nato National Resistance Army (NRA) di Yoweri Kaguta Museveni.
Nella seconda metà degli anni ’80 in Uganda è successo di tutto. Tra UNLA e NRA si è inserito l’Holy Spirit Mobile Force di Alice Auma Lakwena, che millantava poteri magici ed era chiamata La strega del nord. Alla fine di una vera e propria guerra civile, l’UNLA si è riorganizzato nell’Uganda People’s Democratic Army. Alla fine, Museveni è riuscito a conquistare la Presidenza (nel 2005 si sono svolte le prime elezioni multipartitiche) e tutt’ora è in carica.

“The President of Uganda” dice solenne Norman quando ci supera un’auto blindata con tanto di scorta. Noi siamo appena ripartiti da un Motel Agip (buffet per pranzo: 7 euro) di Mbarara, la città più grande che troviamo sulla strada. Quando entriamo nella zona dei Virunga (una catena di 8 vulcani al confine tra Uganda, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo), la strada si fa ancora peggiore.  La zona è chiamata La Svizzera d’Africa E Il paesaggio potrebbe anche ricordare le Alpi. Ci fermiamo sul lago Bunyonyi, ma la foschia impedisce di vedere lontano. Il confine con il Ruanda è a meno di 40 chilometri e la capitale Kigali è raggiungibile in meno di 2 ore.
Nel 1994 la pessima gestione della suddivisione del potere tra le etnie Tutsi e Hutu (una problematica, quella della rivalità tribale, che né i belgi nel 1916, né l’ONU nel 1993 avevano dimostrato di comprendere) portò alla morte di almeno un milione di persone, in prevalenza Tutsi. A Kisoro, non a caso, troviamo un centro di accoglienza dell’ONU che ha ospitato i profughi.
Sono passati 20 anni, ma se pensate che le pulizie etniche in Africa siano un ricordo del passato, sfogliate i giornali di oggi (12 febbraio 2014). Dopo che nei primi mesi del 2013 la Seleka (alleanza) musulmana ha sollevato il presidente della Repubblica Centroafricana Bozizè, e razziato più che poteva per i mesi successivi, a dicembre i cristiani e gli animisti si sono vendicati e hanno ucciso almeno 1000 persone, costringendo il Presidente musulmano (il primo, da quando il paese ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960) Djotodja a fuggire in Benin. Oggi 5000 pacekeepers africani e 1000 militari francesi non riescono a ristabilire l’ordine. Le milizie anti balaka (un’arma da taglio) sono feroci e motivate da credenze deliranti (indossano dei feticci, detti gris gris) che secondo loro li rendono immuni alle pallottole. Ci sono un milione di sfollati e l’ospedale di Medici Senza Frontiere (60 posti letto) fa 12.000 visite a settimana.

Una delle ripide discese del Bwindi Impenetrable park
Una delle ripide discese del Bwindi Impenetrable park

Dalla Guesthouse si possono vedere i vulcani Karisimbi e Visoke. Dian Fossey, fondendo i nomi, battezzò il suo centro di studi fondato nel 1967: il Karisoke. Per raggiungerlo occorre camminare in salita per 3 ore e ai visitatori si raccomanda: venite ragionevolmente in forma. A Karisoke è sepolta Dian Fossey, vicino al sua amato Digit.
Il nostro Guesthouse si vanta del fatto che la Fossey lo abbia usato come base di partenza all’inizio dei suoi studi. In verità, è stato rifatto nel 1999, quindi non conserva nulla dei tempi di Dian. Facendo pochi passi, si arriva a quello che potremmo definire il centro di Kisoro. Il mio diario dice, laconico: “E’ un postaccio”.
Ci si ritrova in breve circondati dai ragazzini, che non danno l’impressione di sapere dove sia l’Italia. Dopo aver chiesto notizie della nostra Capitale, alla risposta “Roma” reagiscono con un inquietante “Mai sentita”.
Scendendo per le vallate, si capisce chiaramente perché la convivenza tra i Gorilla e gli insediamenti umani si sia rivelata difficile. Le coltivazioni distruggono l’habitat di questi primati.
Il nome Gorilla fu introdotto dal naturalista francese Isidore Geoffrey Saint Hilaire. Traducendo nel sesto secolo gli scritti del comandante cartaginese Annone, i greci avevano definito Gorillai una tribu di donne selvagge e pelose che vivevano nell’Africa a ovest del Nilo. Allora, tutta l’Africa conosciuta a ovest del Nilo era definita Libia.
Di Gorilla si conoscono 2 specie: il Gorilla Occidentale (gorilla gorilla) e il Gorilla Orientale (gorilla beringei). Il Gorilla occidentale vive in Nigeria, Camerun, Centrafica, Repubblica Democratica del Congo e si stima che ne esistano da 40 a 80.000 esemplari. E’ questo il tipo di Gorilla che si trova negli zoo. La sottospecie Cross River (rimasta solo nel sud della Nigeria) è invece ridotta a 250 esemplari e a forte rischio di estinzione.
Il Gorilla orientale (che è più grande: i maschi possono arrivare a 1.80 eretti e a pesare 200 chili) ha una sottospecie di pianura (nella Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Uganda) ed è calcolato che il contingente sia di 12.000 esemplari. Il Gorilla di montagna vive invece solo nel Bwindi Impenetrable park in Uganda e tra i vulcani Karisimbi e Visoke in Ruanda. Non ne sono rimasti più di 600.

Silverback, il maschio "alfa"
Silverback, il maschio “alfa”

“Se riusciremo a portare la popolazione di questo parco a 700 esemplari, potremo dire di aver salvato il gorilla di montagna dall’estinzione”.
Kaileb è la guida che ci accompagna sulle tracce dei Gorilla. E’ palesemente orgoglioso, quando dice che da 2 anni non muore a Bwindi un solo Gorilla e che negli ultimi 12 anni si è raggiunto un equilibrio con la popolazione umana. Che ha capito che i fior di soldi che i turisti pagano fanno comodo anche a loro e che quello del portatore è un lavoro faticoso ma redditizio (per gli standard di qui: 15 dollari per ogni trekking).
Dalla Guesthouse al punto di partenza dell’escursione la strada è davvero pessima e le botte alla schiena sono dolorose. A quel punto, non vedevo l’ora di iniziare il trekking. Camminatore provetto e incallito, mi sentivo più che pronto. Ma non avevo calcolato il clima (molto umido), l’altura (2600 metri) e le salite ripide.
Kaileb si raccomanda di avere abbastanza cibo e acqua. Io mi consulto con Norman e decido che 3.5 litri sono abbastanza. Sarà un errore, ma parto carico. Sul piano, guido la fila e mi godo le vallate sceniche che si aprono a destra e sinistra. Ma in discesa, estremamente ripida, scivolo all’ultimo posto. Occorre indossare guanti per proteggersi dalle spine e le guide (ce ne sono di armate, per proteggerci da eventuali bracconieri) iniziano ad aprire la strada con il machete. L’aggettivo impenetrable nel nome del parco non è insomma folclore. Mi impregno di sudore e mi fermo a bere. “Wise man”, commenta Kaileb.
Siamo in 8, perché non è consentito portare a contatto con i Gorilla più persone. Questi Gorilla sono abituati agli esseri umani e non potrebbe essere altrimenti, perché questi primati sono abbastanza schivi e, soprattutto, il contatto prolungato con gli esseri umani può sottoporli a batteri e virus per loro letali.
Quando arriviamo al punto dove i Gorilla erano il giorno prima, i tracciatori ci danno la brutta notizia: bisogna scendere ancora e la discesa è sempre più ripida. Tra me e me, canto Welcome to the Jungle e ormai non ne posso davvero più delle liane che mi imprigionano i piedi, quando il Porter dice: “Gorillas”.

Incontro ravvicinatissimo con un Gorilla
Incontro ravvicinatissimo con un Gorilla

All’inizio si muovono solo delle foglie e si sente un odore pungente. Poi spunta il gigantesco silver back, il maschio alfa. Kaileb non si accorge che dietro di lui c’è una femmina con 2 piccoli (2 gemelli, addirittura) e silver back lo allontana con una manata intimidatoria. Le guide si fanno strada e intercettiamo altri individui. Ritroviamo anche il maschio alpha, che si è sdraiato in una posa da icona dell’antico romano sul divano e mostra un’espressione decisamente compiaciuta. Dopo un po’, silver back emette un suono che potrebbe essere un ringhio e Kaileb decide che siamo stati abbastanza a contatto con i Gorilla. Ci spostiamo in una radura e mangiamo. Io mi cambio la maglietta (a maniche lunghe e in cotone, come consigliato da loro) e la strizzo: è intrisa di sudore. Mi accorgo che qualcosa non va: non ho abbastanza saliva per deglutire e l’acqua è quasi finita. Quando ripartiamo, mi scordo dei problemi e delle gambe dure, perché per poco non calpesto un individuo giovane che sta tranquillamente sdraiato in un cespuglio per cibarsi di succulenti bastoncini ricoperti di termiti. Questa volta siamo veramente vicini e possiamo vedere come usa i pollici delle sue mani a 4 dita. Il Gorilla inserisce il bastoncino nel termitaio e lo estrae coperto di insetti.
Questi primati sono quasi esclusivamente vegetariani e le termiti (o altri insetti) forniscono quasi tutte le proteine di cui la loro dieta ha bisogno. Non è consigliabile fissare un Gorilla, ma non posso fare a meno di essere affascinato dagli occhi scuri e intelligenti e dagli sguardi curiosi che il Gorilla lancia a ogni rumore che facciamo. Mi avvicino per osservare bene la cuccia che il Gorilla si crea e nella quale passa la giornata. Quando evacua, e la sporca, l’abbandona e se ne crea un’altra.

Il Porter mi sorregge: a fine del trekking, non ne ho proprio più
Il Porter mi sorregge: a fine del trekking, non ne ho proprio più

“Adesso scendiamo e poi risaliamo per arrivare al campo” spiega Kaileb “Ci metteremo circa un’ora e mezza” e poi infierisce: “Da solo, ci metterei 45 minuti”.
Io non sto bene. Glielo dico e lui mi invita ad aprire la fila e fare io il passo. Ho avuto i crampi dopo 50 chilometri in bici in giornate calde, ma nulla di paragonabile a quello che sento: è come se avessi dei coltelli nelle gambe.
Ho solo mezzo litro d’acqua e a un fiume il Porter mi invita a bere. Non ne ho il coraggio, ma mi rinfresco.
Compro dell’ananas da un coltivatore, che lo coglie da piantine bassissime. Ma avrei bisogno di sali minerali, che l’ananas non mi dà. Dopo la prima collina, penso di non poter proseguire. Fosse stato possibile, mi sarei fatto venire a prendere. Mi sarei vergognato il giorno dopo, ma avrei accettato la vergogna, perché le mie gambe si rifiutavano di proseguire.
Sull’ultima salita, devo farmi aiutare dal Porter. Mi fermo un sacco di volte (ho scritto 80 sul diario, ma non credo sia vero…). Gli altri del gruppo non vorrebbero, ma mi sdraio e Kaileb cerca di aiutarmi a superare i crampi. L’ultima sosta è a 200 metri dall’arrivo. Mi rialzo, ansimando supero la curva in leggera salita e vedo Norman che mi viene incontro con una bottiglia d’acqua. Bevo un litro e mezzo in un minuto e un altro litro e mezzo lo bevo mentre Kaileb officia la cerimonia della consegna dei diplomi. Berrò ancora un litro prima di arrivare alla Guesthouse. Norman è salomonico: “Comunque, hai fatto un’esperienza”.
Dico a Kaileb che ormai sono troppo vecchio per queste cose. Lui, sardonico, mi chiede quanti anni ho. Saputo che ne compirò 47 tra 8 mesi, ghigna: “Io ne ho 52”.

Al Porter do 25 dollari anziché 15, visto che mi ha salvato la vita. Altri 25 li do a Norman. Abbraccio i miei compagni di avventura: una coppia di Bologna (lui medico, lei assistente sociale, vivono qui; 2 grandi, insomma), il padre della ragazza, una coppia di spagnoli al terzo Gorilla Trek consecutivo. Li ringrazio, perché quando ero in difficoltà nessuno si è preoccupato del tempo che stavamo perdendo e nessuno me l’ha fatto pesare. Anzi, tutti (sia i turisti, che le guide, che le persone che incontravamo lungo il cammino) hanno provato a darmi una mano,
La mattina dopo siamo tutti belli rigidi sulle gambe. A parte il nostro compagno di viaggio americano, che esprime delusione (lui si era aggregato a un altro trekking) perché hanno intercettato i Gorilla dopo appena mezz’ora. Da quel punto, lo soprannomino Il Puzzone.
Durante il viaggio di ritorno a Entebbe Norman ci fa presente che “it’s not allowed” dare passaggi alle persone che fanno autostop.

L’ultimo ricordo che ho dell’Uganda è il Lago Vittoria visto dall’aereo.

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