Le balene non lo sanno…

Messico 2012-2013, VIAGGI

Le prime tappe del mio viaggio in Messico. Avverto il lettore che quando il racconto è in prima persona plurale (“noi”), non è per eccesso di megalomania, ma perchè ho viaggiato con mia moglie Elisabetta, detta Il Nibbio.

Quando arrivo a Guerrero Negro, trovo un paesino quasi deserto. Consta di poche case (e diverse baracche), qualche hotel e qualche ristorante. Ma sembra abbandonato.
L'unica balena che ho visto a Guerrero NegroA Guerrero Negro c’è sostanzialmente solo un motivo per andarci: osservare le balene grigie nella laguna Ojo de Liebre. E purtroppo, si direbbe che le balene grigie in questione siano ancora in viaggio dall’Alaska.
Ufficialmente la stagione inizia il giorno prima del nostro arrivo (il 15 dicembre), ma in verità gli operatori di Guerrero Negro la fanno iniziare più avanti. Non trovano motivo per entrare in mare quando fa ancora abbastanza freddo (dal loro punto di vista, perché ci saranno 20 gradi) e il grosso delle balene ancora non c’è. “Al massimo, qualche maschio che si assicura che nella baia non ci siano squali o orche”.
Perché le balene grigie qui ci vengono per riprodursi e allevare i loro cucciolotti di 700 chili, che sarebbero un bel bocconcino per le orche o anche per qualche squalo toro di 3 metri. A sentir parlare di orche e squali toro, a me si illuminano naturalmente gli occhi. Però all’agenzia Malarrimo (omonima dell’hotel dove trovo alloggio) gliene frega il giusto: in mare non ci si va. Anche perchè il grosso dei turisti arriva a febbraio, quando c’è naturalmente più caldo.
Ho con me il libro di Pino Cacucci (che è un appassionato del Messico, oltre che il traduttore di Yuri Herrera e Gabriel Trujillo Munoz, scrittori che ho già citato nel capitolo precedente) ‘Le balene lo sanno’.  Non è male, anche se Cacucci si atteggia un po’ troppo al Bruce Chatwin italiano (sfoggia anche l’uso del quaderno Moleskine che, per la cronaca, è lo stesso sul quale prendo appunti io; anche la mia agenda di lavoro è Moleskine. E c’è da dire che, rispetto a Chatwin, che se li doveva andare a comprare in Francia, i quaderni Moleskine oggi si trovano facile, perché li produce un’azienda italiana…ma torniamo a noi). A Cacucci, che vive a Bologna e che citerò di certo ancora, voglio dire che le balene non lo sanno, che io volevo vederle il 16 o 17 dicembre.

Guerrero Negro si chiama così perché molto tempo fa una baleniera chiamata Black Warrior, si inabissò nella laguna Ojo de Liebre. Aveva ucciso così tante balene grigie che la sua stiva era risultata talmente carica da affondare la nave. In Messico la caccia alla balena è vietata da più di 50 anni e, ci informa Green Peace la popolazione di balene grigie è oggi sui livelli originari. Tutto il contrario del Pacifico Occidentale, dove i giapponesi continuano imperterriti a cacciarle. Onestamente, non si sa perché. Quasi tutto ciò che si ricava dalle balene, oggi si può produrre spendendo meno. Ma torneremo a parlarne.
Oltre alla balena grigia, c’è un altro animale che è il simbolo della laguna: l’aquila pescatrice. La si vede facilmente, semplicemente passeggiandoL'aquila pescatrice verso le saline (dicono: le più grandi del mondo), mentre pesca o addirittura nel suo nido. L’aquila pescatrice tendeva a fare il nido sui pali della luce, con il risultato che spesso i pulcini, nei primi tentativi di volo, finivano arrosto a causa dell’alta tensione. Ora a Guerrero Negro hanno predisposto delle piattaforme dove questi splendidi uccelli nidificano in tranquillità.
Oltre alle aquile, c’è un’abbondanza di volatili che fa la gioia di qualsiasi bird watcher. Io personalmente, sono più orientato a mammiferi, pesci e rettili. Ma ho sviluppato da anni una certa passione per il pellicano e mi perdo a guardarlo mentre pesca.

Stando alla guida ‘Lonely Planet’, abbiamo fatto bene a venire nella California messicana, perché entro pochi anni lo “sviluppo edilizio” l’avrebbe devastata. La guida è stata scritta qualche anno fa e tutto questo sviluppo edilizio si fa fatica a vederlo. Per dire, Playa de Rosarito (vicinissima al confine) è descritta come una specie di Miami Beach, ma in realtà non c’è nulla, se non una spiaggia enorme e (in questa stagione) poco balneabile.
Un cactus che mi fa sembrare piccolo...Viaggiando verso sud il paesaggio abbonda di cactus. Gli americani al plurale scrivono cacti, ma leggo su Wikipedia che lo fanno impropriamente. Ne prendo atto. Restano molto belli e, a volte, sono anche molto alti. Avevamo ipotizzato di fare un’escursione al parco del deserto del Vizcaino, ma siamo in ritardo sulla tabella di marcia. E poi, gli ultimi escursionisti sono stati aggrediti dai puma…
Comunque, guidare nella Baja California è veramente un piacere. Ci sono pochissime auto, il paesaggio incanta e, ovunque ci si fermi, la gente è cordialissima. Specie se si convincono che non sei un Gringo (allontanandosi dal confine, per altro calano anche i Mc Donald’s e Subway e compagnia bella).
Nei paesi lungo la peninsular, basta mettere un piede giù dal marciapiede che le auto, anche quelle a centinaia di metri di distanza, si fermano per lasciarti attraversare. Bisogna però fare i conti con il fatto che i messicani di qui non hanno idea delle distanze in chilometri. Vi rispondono sempre che “manejando” (cioè, guidando) ci vogliono 2, 3, 5 ore. Per arrivare alla punta sud, mi dicono che da Tijuana servono 24 ore. Ma io ho circa 10 giorni di tempo…

Lasciando Guerrero Negro, si arriva a San Ignacio, dove il paesaggio muta radicalmente. Sembra di essere in una zona Tropicale (in effetti, ci si avvicina al Tropico del Cancro), molto rigogliosa. Qui prendiamo contatto con un’altra delle cose ricorrenti nella California messicana: le Missioni.
I frati (a San Ignacio, prima i Gesuiti e poi i Domenicani) costruivano (16001700) le Missioni per convertire i nativi. Che qui in Baja California non hanno mai formato una civiltà degna di nota come gli Aztechi (che però, forse vengono originariamente proprio da qui) o i Maya, ma avevano il loro bel diritto di vivere di pesca. E invece, sono stati praticamente estinti a causa dei virus provenienti dall’Europa e che non riuscivano a curare. In effetti, oggi la California messicana è quasi interamente abitata da gente di origine mestiza, ovvero frutto di matrimoni misti tra europei e nativi.
Santa Rosalia è sul Mar di Cortès, cioè la parte di California messicana che guarda alla cosiddetta Costa Pacifica del paese, quella in cui troviamo Acapulco e Puerto Escondido, per intenderci.
Trovo alloggio presso una tipa che è truccata come le aliene di Star Trek che si innamorano sempre del Capitano Kirk ed è appassionata dell’Italia. Una passione viscerale, non tanto documentata, perché temo ritenga Leonardo Da Vinci e il Colosseo contemporanei. Ma, solo perché siamo Italiani (almeno, così dice), ci sconta 50 pesos.
La Chiesa di Santa Rosalia è un prefabbricato ideato da Gustave Eiffel ed esposto a suo tempo con la più celebre torre, destinata a diventareLa Chiesa della città di Santa Rosalia il simbolo di Parigi. Successivamente smontata, la Chiesa è stata rimontata a Santa Rosalia nel 1897. In quegli anni a Santa Rosalia era importante l’estrazione del rame da parte di un’azienda francese, ma di quel progetto industriale oggi restano solo ruderi, estremamente postmoderni.

La nostra meta finale è comunque Loreto, città costiera le cui acque sono parco marino.
Prima di arrivarci passiamo, costeggiando la fantastica baia di S. Ingnacio, per la lussureggiante Mulegè, dove si trova la Missione di Santa Rosalia. Da lì scendiamo verso Loreto, passando da spiagge da sogno, praticamente deserte. La mia preferita è Playa Santispec.
Il lussureggiante paesaggio di MulegèMi dicono che da queste parti non si vive (4045 gradi costanti) in luglio e agosto, ma in dicembre la temperatura è davvero piacevole. Arriviamo quindi a Loreto con molte aspettative.
Il nostro albergo, che ha voluto i soldi in anticipo, si chiama Baja Outpost e l’ingresso dovrebbe essere sul Malecon (il lungomare). Purtroppo, l’uragano ‘Dean’ del 2007 ha devastato un po’ tutto e il Malecon lo stanno ancora rifacendo. L’Outpost non si trova. Dopo aver girato 20 volte attorno a una via che, magari beffardamente, si chiama El Pipila, decidiamo di chiedere. Un gentilissimo americano (che ritengo affidabile fino ad un certo punto, visto che si aggira sul Malecon con un paio di boccioni di whisky da 1.5 litri l’uno…) ci informa che lo troveremo “at the end of the building”. Bene, c’è un “building”, ma è in costruzione. Non mi fido e tiro dritto. E ritorno su El Pipila.
Mia moglie, intanto calano le tenebre, comincia a ipotizzare di essere stata truffata. Entriamo in un altro albergo a chiedere informazioni. Io mi ricordo che non mi ero fidato di andare “at the end of the building” e provo a tornarci. Gli operai che lavorano al “building” mi chiedono cosa voglio, beffardi più che sospettosi. Poi mi indicano il Baja Outpost. Varco la soglia e trovo un tizio che legge il giornale e che, tranquillo, mi conferma di essere Leon, il titolare.
Torno da mia moglie (che non mi risponde al telefono…), che dal panico iniziale è passata alla speranza. Il tizio della reception dell’albergo è partito in motorino alla ricerca del Baja Outpost. Ma no!
Quando il tizio torna in motorino, non ho il coraggio di dirgli che avevo trovato l’albergo. Gli mollo 20 dollari della serie “spero di non offenderti” (speranza ben riposta: risponde con un sorriso a 64 denti) e, attraversato al buio e con cautela con la nostra Dodge a noleggio (color marrone cacchina, che va alla grande in Messico)  il cantiere, prendiamo alloggio al Baja Outpost. C’è buio, ma la buona notizia è che a suo tempo avevo regalato una mini torcia a mia moglie e lei, più che altro per farmi contento, l’ha portata.