Il giornalista racconta quel che vede

BASEBALL, La formazione continua dei giornalisti, SCHIROPENSIERO, SPORT

Il rapporto di un giornalista sportivo con atleti e tecnici si evolve costantemente. Ma deve partire da una considerazione: loro sono i protagonisti degli eventi, noi quelli che raccontiamo gli eventi. Non siamo a un circolo privato in cui passiamo il tempo, loro a giocare e noi a scrivere, e poi tutti a bere.

Siamo tutti italiani, quindi c’è da aspettarsi che a un giornalista sia chiesto di esibire i gradi. Il nostro è il paese del lei non sa chi sono io, ma allo stesso tempo del chi cazzo sei tu. Nel senso: se non siete visti come uno che conta qualcosa, certe persone vi ignoreranno.
L’ex Commissario Tecnico della nazionale di calcio, il Campione del Mondo Marcello Lippi, quando era più famoso per il suo passato da calciatore che non come tecnico e allenava il Cesena mi aveva dato il numero di telefono di casa e mi trattava da amicone (ovviamente, senza sapere chi veramente fossi; ma allenava il Cesena, contavo tanto come lui). Anni dopo, allenatore (pluri decorato) della Juve, mi disse: “Eh, ma facciamola assieme agli altri. Non posso mica fare un’intervista con tutti”.
Gli allenatori di calcio tendono a trattarvi come paria, gente che non è al loro livello, neanche fossero esperti di fisica quantistica. I giocatori di calcio dicono invece sempre le stesse cose, a parte rari casi. Se li mettete con le spalle al muro, non esitano a insinuare il seguente dubbio: “Scusa, ma tu a che livello hai giocato per saperne così tanto?”.

Ma se un tecnico o un giocatore vi conosce di persona, magari perchè avete condiviso del tempo durante una trasferta e siete entrati in confidenza, ci può essere anche di peggio: che prenda un vostro rilievo come un qualcosa di personale.
Sembra incredibile doverlo ribadire, ma mi sento di farlo: un giornalista scrive (o parla) per dare informazioni al maggior numero di persone. Se io racconto una partita (di calcio, di baseball…) e qualcosa succede o non succede a causa di un errore, devo dire che Tizio ha sbagliato. Tizio non sarà contento, ma non ci si può fare nulla. Il giornalista deve scrivere che Tizio ha sbagliato, anche se Tizio è stato il suo idolo, si è vantato con gli amici del fatto che è entrato in confidenza con il suo idolo e trova doloroso che Tizio gli ha messo il muso.
Naturalmente, Tizio mettendo il muso al giornalista del quale è stato idolo e del quale credeva di aver ottenuto la fedele amicizia, non si comporta da persona particolarmente intelligente. Ma questo è un altro discorso.

Torniamo all’errore. Se io scrivessi un articolo rivolto solo a mamme, fidanzate e amici dei giocatori, mi sentirei di omettere il nome di chi commette un errore.
Ma non è così. O almeno, lo spero, che a leggermi non siano solo i parenti dei giocatori. Provando io una certa libidine nel formattare gli articoli con neretti e corsivi (alcune volte, le parole sono addirittura in neretto e corsivo), tendo a non evidenziare il nome di chi sbaglia (come invece faccio con chi fa una cosa buona), ma finisce lì. Se una palla passa sotto le gambe di Tizio, è necessario che nell’articolo risulti che la palla è passata sotto le gambe di Tizio. Questo per il lettore Sempronio, che magari è momentaneamente a Melbourne in Australia ma vuole informarsi su cosa succede nel campionato di baseball italiano (potenza della rete). Se io scrivessi qualcosa tipo “il punto è arrivato su una disattenzione della difesa”, darei in effetti un’informazione incompleta a Sempronio che legge a Melbourne. Avrei anche la compiaciuta gratitudine della mamma, della fidanzata (che magari mi sorriderà anche) e degli amici di Tizio.
Cosa mi interessa di più?

Il giornalista deve fare il suo lavoro, cioè raccontare quello che vede. Senza paura di sbagliare. L’errore fa parte del gioco per gli atleti e anche per i giornalisti. Con la differenza che il giornalista può sempre rettificare, mentre l’atleta (ma anche l’arbitro o l’allenatore) una volta che ha agito non può tornare indietro.
Sia chiaro: anche i giornalisti sono permalosi e, se scoperti in fallo, spesso cercano giustificazioni. Qui voglio chiarire che la fretta, la telefonata che è arrivata, WhatsApp che continua a trillare non sono attenuanti, bensì aggravanti. In nessuna maniera giustificano un errore.
La stessa cosa, naturalmente dal punto di vista dell’atleta, vale per il rimbalzo falso, il lampione che abbaglia, un piccione che ha oscurato il sole. E nemmeno, dal punto di vista del tecnico, possiamo prendere per buono il classico io i ragazzi li vedo tutti i giorni, voi no.

In conclusione: il racconto dello sport aiuta lo sport. Descrivere un evento non sostituisce la visione diretta dell’evento, però è un buon palliativo per chi non ci può esserci e un interessante complemento per chi c’era. A patto che sia fatto di prima mano, con professionalità e correttezza. Come un giornalista dovrebbe (almeno) provare sempre a fare.