Di ritorno da una vacanza in Australia, nel febbraio del 2004 ricomincio a scrivere il Diario per Baseball.it. Allora non me ne rendevo conto, ma in un anno elettorale gli equilibri cambiano e chi deve essere eletto si trasfigura e (probabilmente) sente anche le voci di Mosè ed Elia. Nella mia ingenuità, io ero convinto che nel baseball e nel softball italiani sarebbe stato apprezzato chi avesse dimostrato di saper rompere con il passato. Ma mi sbagliavo. C’è tanta gente che ha come unico scopo appiattire il proprio sedere su una poltrona. E questo indipendentemente dal bene del movimento. Così fino a che vi individuano come un possibile mezzo per arrivare al loro fine, siete bravissimi. Ma se questa opzione viene meno….E’ anche per questo che, con il 2004, mi auto sospendo dalla rubrica “Diario di un cronista itinerante”, come vedremo più avanti.
2 febbraio- I buoni propositi
Non so se sono nello stato d’animo adatto a scrivere un Diario. Sono reduce da una Coach Convention che ho vissuto con sentimenti claustrofobici (dentro una riunione, fuori da una riunione…aria pura respirata, praticamente pochissima) e in questo momento non mi sento un cronista itinerante di baseball sguinzagliato nei suoi spazi aperti. Sarà forse perchè vengo da un paese dove gli spazi davvero non mancano e la claustrofobia non è nemmeno un’ipotesi. Comunque, visto che a questo punto la stagione ricomincia, non potevo esimermi.
Esco dalla Convention leggermente deluso. Dovevo conoscere 2 dei miei principali detrattori e a entrambi ho stretto la mano. Nessuno dei 2 però mi ha offerto da bere, punto sul quale era stato raggiunto un accordo di massima. Nemmeno siamo riusciti a parlare, forse per colpa mia. D’altra parte (forse non sempre per colpa mia) sono anche altre le persone alle quali non sono riuscito a dedicare una parte del mio prezioso tempo. Credo che dovrò prendere lezioni di ubiquità dai vertici federali.
Il 2004 si annuncia ricco di amiche e amici degli sms. Passati, presenti e futuri. Non si fa in tempo a scoprirne uno, di questi amici virtuali, che subito ne spuntano altri 2 o 3.
E’ sorprendente come noi quarantenni (sia chiaro, ho appena scritto una frase che mi riempie di dolore…) siamo affezionati a questo mezzo di comunicazione, che ad occhio e croce sembrerebbe più adatto agli adolescenti. Per me che ho passato solo 2 degli ultimi 6 mesi del 2003 a casa, l’opportunità di comunicare con questa modalità economica, rapida e nemmeno troppo impersonale è comunque molto importante. Ed è anche per questo che sono affezionato alle mie amiche e ai miei amici degli sms.
Alla fine del 2004 sapremo più di preciso dove vuole e dove può andare il baseball italiano. Ci saranno state le Olimpiadi e si starà votando per il rinnovo delle cariche federali.
Questi 2 anni che ho passato nella stanza dei bottoni mi hanno insegnato tante cose e mi hanno consentito una crescita umana che giudico non indifferente.
Dal punto di vista professionale, chiunque si occupi di comunicazione nel baseball si trova a convivere con un ambiente che tendenzialmente fa fatica a comunicare. O non comunica per nulla, insomma, o lo fa usando un linguaggio che non sempre è comprensibile.
Il baseball è difficile risulta per molti un motivo di malcelato orgoglio.
Il mio obbiettivo per il 2004 è convincere quanta più gente possibile esterna all’ambiente del fatto che il baseball NON è difficile. Per questo, chiedo a tutti coloro che si occupano di comunicazione nel baseball di farlo con il linguaggio più semplice possibile. Confermando che, dizionario alla mano, “semplice” e “banale” non hanno lo stesso significato.
Inoltre, mi propongo di tentare di far capire a quanta più gente possibile interna all’ambiente che è fondamentale che di baseball si parli, perchè il baseball cresca. Credete a me: non esistono notizie belle o brutte, comode o scomode. Esistono solo notizie che interessano al pubblico del baseball e notizie che, per quanto facciano gongolare chi le divulga, al pubblico non interessano.
Mentre la FIBS si preparava a organizzare un draft tra le squadre del massimo campionato, Cuba Deporte si rimangiava la parola: non ci sarebbe stata la possibilità per i giocatori cubani di primo piano di giocare in Italia nel 2004. Per la cronaca, la prima apertura concreta alle frontiere per i giocatori cubani arriverà solo nel 2013
10 febbraio- Anno bisesto, anno funesto
Dopo la notizia del mancato accordo con la Federazione cubana sono qui, pronto ad immolarmi. Petto in fuori, vado incontro al mio destino.
D’altra parte, lo sanno tutti che anno bisesto, anno funesto. E devo dire che, se guardo a tutti gli anni bisestili che ho vissuto, è sempre successo qualcosa che mi avrebbe fatto a suo tempo argomentare che una lista di giocatori cubani ritirata non dovrebbe poi essere considerata una tragedia.
A parte il 1964, anno in cui ero particolarmente attento a omogeneizzati e pannolini e del quale non ho molti ricordi, tutti gli anni bisestili portano con sè qualche evento più o meno drammatico.
Il 1968 è l’anno in cui mi sono innamorato per la prima volta. Di una certa Barbara, che frequentava l’asilo con me. Strana reazione aveva l’aspirante cronista itinerante di fronte all’oggetto del suo desiderio: fuggiva. Il momento in cui le sono arrivato più vicino è stata la recita di Natale, in cui lei interpretava la Madonna e io (che ero il più alto di tutti) reggevo uno stendardo (la mia memoria, come dimostra la foto sopra, ha una falla. Non reggevo lo stendardo, ma ero l’ultimo a destra, vestito da chierichetto). Promettevo bene, come rubacuori.
Del 1972 mi è rimasto impresso che alle Olimpiadi prima si parlava sempre di Mark Spitz che vinceva tutte le gare di nuoto e poi non si sorrideva più e la palazzina dove soggiornava Israele era circondata dalla polizia.
Il 1976 è pur vero che è stato l’anno del primo scudetto di Parma nel baseball, ma è stato anche l’anno della mia esclusione dalla prima squadra dell’OrSa che sarebbe andata a giocare il campionato italiano Little League.
Nel 1980 gli Stati Uniti hanno boicottato le Olimpiadi di Mosca. L’Italia, grande, ha partecipato come CONI.
Nel 1984 l’Unione Sovietica ha boicottato le Olimpiadi di Los Angeles. L’Italia, grande, ha vinto un sacco di medaglie. Non nel baseball…
Nel 1988 ho conosciuto Jim Abbott, Fidel Castro ha detto “questa medaglia d’oro del baseball spetta più all’arbitro che a noi” e la mia fanciullezza è finita in un attimo. In fondo era ora, compivo 25 anni.
Nel 1992 il Segretario di un partito che votavo con fiducia ha detto: “Purtroppo tra di noi c’era un mariuolo”. Purtroppo tra loro non ce n’era uno solo.
Nel 1996 ho capito che nella vita nulla dura per sempre, anche se ad un certo punto crediamo davvero che possa succedere.
Nel 2000 mi è stato ribadito che nella vita nulla dura per sempre, anche se negli ultimi 4 anni ero tornato a crederci.
L’anno bisestile c’è perchè in effetti un anno dura 365,242 giorni. Lo 0,242 (periodico) sta per 6 ore circa. Giustamente, sommando le 6 ore di resto, ogni 4 anni ci avanza un giorno, che diventa il 29 febbraio. E questo mette bene o male le cose a posto.
Ammetto che deve essere inquietante, essere nati il 29 febbraio. Se a me (nato 11 agosto) sono venuti i complessi perchè non riuscivo a festeggiare il compleanno a scuola, figuriamoci cosa può succedere ad un bambino che lo festeggia ogni 4 anni.
Vi ho distratto dalla rabbia che provate perchè è stata ritirata la lista dei cubani? No? Ci proverò allora spiegandovi perchè il 2000 è bisestile e il 1000 no. Neanche adesso? D’accordo, sono sempre qui, a petto in fuori, pronto ad andare incontro al mio destino.
Trovo estremamente interessante la posizione di uno degli affezionati del forum, che ultimamente si è scagliato contro Tuttobaseball (dopo non aver risparmiato la mancanza di giornalismo investigativo che caratterizzerebbe Baseball.it) e che non accetta il discorso “si fa quel che si può”. Lo trovo interessante, perchè stride molto con la giustificazione all’amatriciana sempre pronta per chiudere ogni discorso sugli insuccessi che caratterizzano il baseball, come del resto tutte le attività della vita.
Mi spiego: i giocatori sono dilettanti (poverini…), i tecnici sono dilettanti (fanno anche troppo…), i dirigenti sono appassionati (non ci fossero loro…), i genitori meritano un plauso (il loro contributo è impagabile…). Chi commenta le loro gesta, invece, dev’essere l’uomo bionico, senza debolezze, senza famiglia, senza amici, che vive di questo…e se non ci riesce, mica glielo abbiamo chiesto noi di farlo!
Oh, adesso che finisco mi sa che mi rivolgo ad Amnesty International.
In che cosa il 2004 risponda alle caratteristiche di anno funesto, lo imparerete leggendo. Sul 2008 non ho scritto Diari, ma ricordo ad esempio che la RAI cancellò le dirette del girone di semifinale IBL e un paio di falsi e cortesi cercarono di farmi il posto. Sul 2012 torneremo, con inventori di sms, ex amici e tutto
17 febbraio- Il venerdì 13 del cronista itinerante
Quando in Italia si usa la parola razzismo, la gente si tappa le orecchie, gli occhi e la bocca. Scappa, fa finta di non sentire, ogni tanto inorridisce. Nessuno stupore, quindi, che la mia posizione “nel nostro baseball c’è chi ha atteggiamenti di razzismo nei confronti di tecnici e giocatori di scuola straniera” abbia sollevato un polverone.
Un brano dalla prefazione di Se questo è un uomo di Primo Levi mi aiuterà a spiegarmi: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager….”.
Un paio di episodi accaduti nel corso del fine settimana mi aiuteranno a spiegarmi anche meglio. Eurostar Bologna-Roma venerdì attorno alle 14: il cronista itinerante sta leggendo, passa il controllore e chiede il biglietto, che il cronista itinerante porge distrattamente. Il controllore lo osserva e dice: “Signore, guardi che lei è sul treno sbagliato”. Imbarazzo…imbarazzante. Il cronista itinerante farfuglia qualcosa e il controllore prende… controllo della situazione: “Poco male…ormai non facciamo più fermate. Stia però attento la prossima volta, perchè cambiare treno costerebbe 8 euro” e se ne va.
Eurostar Firenze-Parma sabato attorno alle 20: il cronista itinerante sente confusione e si incuriosisce. Un giovane è salito sull’Eurostar senza biglietto, ha chiesto al controllore di farlo a bordo e, per tutta risposta, è stato invitato a scendere dal treno.
Non era lo stesso controllore, il peccato del cronista itinerante era probabilmente più veniale, ma siamo sicuri che sui 2 differenti comportamenti non abbia influito il fatto che il cronista itinerante (bianco, parla Italiano fluente e indossava per l’occasione un completo scuro) aveva un’immagine più rassicurante del giovane (nero, Italiano incerto, vestiti palesemente abbastanza sporchi) che è stato costretto a scendere?
L’episodio (in sè, deprimente) è arrivato al termine di una serie di danni e piccole disavventure di quelle che abitualmente vi fanno apprezzare il Diario. Partito senza portare con sè assolutamente nulla per la notte e l’igiene personale, ho deciso di fare un po’ di spese presso la stazione Termini di Roma. Ho acquistato così lamette, schiuma da barba, spazzolino e dentifricio. O almeno credevo. Rientrato in albergo dopo l’abituale serie di riunioni, che sembrano fortificare i Vertici Federali tanto quanto distruggono psico fisicamente il sottoscritto, mi sono portato in bagno per lavare i denti. La pasta che avevo comprato mi sembrava di consistenza strana, ma non ci ho fatto caso. Almeno fino a quando ho iniziato a strofinare i denti con lo spazzolino, ovviamente ricoperto della pasta in questione, e un deciso sapore di sapone mi ha invaso i sensi. Ho guardato il tubetto con orrore e ho appurato che quel che avevo comprato non era dentifricio, bensì un sapone da barba in tubetto, prodotto del quale onestamente ignoravo l’esistenza.
Vita dura, quella del cronista itinerante. Soprattutto quando la data è venerdì 13.
Chiudo con una domanda. Qualcuno sa spiegarmi perchè un cappuccino nel bar sotto casa mia a Parma costa 1.2 iuros e lo stesso cappuccino (anzi, onestamente di qualità migliore) a Roma nel bar sotto la federazione costa iuros 0.85?
23 febbraio- Meno male che c’è Star Trek
Sono sempre stato dell’idea che certe giornate nascono male, sono destinate a finire male e quindi è nostro dovere farle finire il più presto possibile. Oggi è una di quelle, ad esempio.
Nonostante i ripetuti segnali ricevuti fin dal primo mattino, ho deciso comunque di svolgere alcune commissioni. Nel bel mezzo del mio circuito di doveri è arrivato però l’ennesimo indizio di come la giornata sarebbe stata negativa.
Alla cassa di un iper mercato uno dei prodotti che avevo acquistato non veniva riconosciuto. Dopo febbrili consultazioni con i suoi superiori al telefono, la cassiera ha pensato di trovare la soluzione. In realtà, al posto di una cosa che costava 1.32 iuros mi ha addebitato una ricarica telefonica (?!) da 30 iuros. E meno male che se ne è accorta lei, perchè il vostro cronista pagherebbe qualsiasi conto gli venisse sottoposto, a patto che rientri nelle sue possibilità finanziarie.
Per riavere i miei 30 iuros sono dovuto prima andare all’ufficio informazioni e poi ad una cassa: “Ma non è necessario che vada alla stessa” mi ha informato la ragazza delle informazioni.
Mentre incassavo il maltolto mi sono anche arrivate 5 o 6 telefonate che annunciavano colpi di mercato di baseball o volevano commentarli. In effetti, il mondo del baseball ha una certa tendenza a chiamarmi quando sono all’interno dei super mercati o sul tratto Bologna-Firenze; in entrambi i casi, notoriamente non si sente nulla e la linea tende a cadere ripetutamente.
Dopo che è successo anche questo, non ho potuto far finta di non vedere. E sono tornato a casa.
Oggi è una brutta giornata, insomma. E meno male che questa sera c’è Star Trek.
Star Trek, lo si può dire di tutte le sue serie, è l’America. E anche il baseball è l’America. Si potrebbe quindi concludere che Star Trek è il baseball, ma mi rendo conto del fatto che sarebbe un’affermazione estremamente discutibile. Così come dire che il baseball è Star Trek. Posso però tranquillamente affermare che questa serie televisiva al baseball è comunque legata.
Nella serie Deep Space Nine un episodio si intitola addirittura Take me out to the Holosuit, gioco di parole che coinvolge la celebre canzone Take me out to the ball game e una delle grandi idee di Star Trek a partire dalle serie The Next Generation: il ponte ologrammi (in Inglese appunto holosuit), luogo nel quale si può riprodurre di tutto secondo un procedimento tecnico teoricamente ingegnoso, a patto che si dia per scontato di avere a disposizione fonti di energia illimitate o quasi e la capacità di poter scindere energia e materia…anche gli appassionati di Star Trek chiamano questi discorsi tecno bla bla, quindi è meglio lasciar perdere. Diciamo solo che sul ponte si gioca una partita a baseball tra gli equipaggi di 2 astronavi. Inoltre, il capitano Sisko (l’attore Tom Avery) è un appassionato di baseball e tiene una pallina sulla sua scrivania. (Scoprirò anni dopo che il padre di Avery aveva giocato in una Negro League)
Gli esempi sono tanti altri, ma il più commovente viene dalla serie Voyager e dall’episodio della sesta stagione One small step (il rimando alla celebre frase di Neil Armstrong durante lo sbarco sulla Luna è evidente).
L’episodio narra di un astronauta che venne dato per disperso durante una delle prime missioni umane su Marte nel 2032 (plausibile) e la cui navicella viene ritrovata. Andando a risentire i diari di bordo, l’equipaggio della nave Voyager di 300 anni dopo scopre che l’astronauta non era morto immediatamente, ma aveva vissuto giorni di solitaria agonia. A tenergli compagnia erano stati il ricordo di un giocatore capace di battere l’hitting streak di Joe Di Maggio (questa sì, è fantascienza…) durante le World Series del 2032 e il rammarico per non sapere il risultato della Serie Mondiale tra Yankees e Astros. Quando l’equipaggio della Voyager decide di dare sepoltura ai resti dell’astronauta, la normalmente inflessibile Borg (razza aliena che annulla l’individuo a favore della collettività) Sette di Nove si sente in dovere di pronunciare le seguenti parole: “Gli Yankees, alla sesta partita”.
Non ci crederete, ma mi sono commosso. Ero davanti al televisore e pensavo che solo il baseball poteva essere usato in un contesto del genere e che solo gli americani sanno comunicare con tanta grazia e semplicità attraverso il baseball. Ho pensato anche che se solo c’è una lontana speranza di comunicare emozioni del genere una volta nella vita, allora vale davvero la pena di scrivere di baseball fino a che ce ne sarà data occasione.
4 marzo- Mi aiutate ad andare nello spazio ?
Ho l’impressione di combattere una battaglia solitaria e senza speranza: quella che vuole inculcare il concetto che il baseball è un gioco semplice.
L’impressione si è fortemente ravvivata dopo una visita alla redazione di un canale di stato per accompagnare alcuni azzurri impegnati in una intervista. Ho provato infatti un senso di fastidio quando, telefonicamente, la conduttrice mi ha chiesto se i nostri avrebbero potuto portare guantoni, mazze e palline. Ho viceversa provato panico, terrore e scoramento quando di persona mi ha detto “Dovremmo cogliere l’occasione per spiegare le regole del gioco”. Cioè: in 5 minuti di programma dedicate a 2 delle nazionali già qualificate per le Olimpiadi, ci mettiamo a spiegare che “dopo 3 strike c’è l’out e dopo 3 out si cambia campo”. No, non ci sto.
Il baseball in Italia si gioca più o meno da 50 anni. E’ assolutamente logico pensare che chi non ha imparato le regole non è in realtà interessato a questo gioco. Che per altro si può seguire con soddisfazione anche da neofita.
Ricordo la mia prima partita allo stadio: avevo 12 anni e si giocava Cercosti Rimini– Bernazzoli Parma. C’era un giovanotto piccolino con la barba che lanciava fortissimo e ce n’era uno più grande (ma anche lui aveva la barba) che batteva fortissimo. Il loro duello mi entusiasmò (si chiamavano, e si chiamano ancora, Romano e Castelli), sia quando il lanciatore fece girare a vuoto il battitore, sia quando il battitore mandò la palla fuori dal campo.
Ricordo che con un amico ci eravamo divertiti tantissimo (specie seguendo il resto del pubblico nel grido: Sal, Sal, Sal Var-ria-le) nonostante ci sfuggisse quasi tutto, compreso il punteggio. Il rudimentale tabellone anni ’70 aveva gli zero che sembravano degli 1 e ricordo che fu appunto il fuoricampo di Castelli, che portò il primo vero 1 sul tabellone, a farci capire che non si assegnava un punto automatico a inning.
Non conoscevo le regole. Per anni ho creduto ad alcune leggende metropolitane che mi sono state inculcate nei lunghi pomeriggi estivi passati a discutere se era meglio Laurenzi o Castelli con i miei cugini a Nettuno. Ad esempio, che dopo 99 foul ball il centesimo valeva come strike. Molto l’ho imparato infiltrandomi nei dug out di Giulio Montanini e Giampiero Faraone come raccatta mazze e finendo con il seguirli come un’ombra per ascoltare quel che dicevano. Cosa che faccio spudoratamente ancora, solo che non ho bisogno di infiltrarmi e, soprattutto, faccio molta più fatica a passare per ombra.
Mi volete far credere che sono io strano o particolare? Non ho mai vinto le gare di tabelline a scuola, nè amato particolarmente gli scacchi. Ho preso i miei bei 5 (e anche un paio di 4; le prime volte, piangevo pure) a scuola e non ho mai brillato sui cruciverba. Eppure a capire che il battitore per segnare deve toccare tutte le basi, ci sono arrivato subito.
Capire il baseball non è questione genetica. Ed è anche ridicolo dire che “non è adatto a noi europei” (un mio amico americano sostiene per altro che noi europei concepiamo uno sport solo se coinvolge 2 porte e un pallone, ma l’affermazione è quantomeno snob…) perchè quando il baseball venne inventato (1875) gli americani ERANO di fatto europei. O diretti discendenti. Capire il baseball è insomma qualcosa alla portata di tutte le persone di intelligenza normale.
Semmai, ci sono da fare altre considerazioni. Il baseball è un po’ come l’Opera Lirica o il Jazz: se si cerca di razionalizzarlo, si può imparare ad apprezzarlo. Ma è difficile che entusiasmi. Perchè? Nascendo come gioco (così come l’Opera e il Jazz nascono come forma di intrattenimento popolare) deve essere concepito come divertimento per tutti. Non è una scienza. O meglio, lo può anche diventare per un gruppo ristretto di persone (tecnici, studiosi del gioco) ma se si vuol sperare di fare massa, l’attrattiva deve essere diversa da concetti tipo “mi inebria il profumo della terra rossa appena dissestata…tu che non hai almeno 43 campionati alle spalle non mi puoi capire”. Il pubblico ha bisogno di esaltarsi per chi tira forte, corre forte, lo fa esultare e (perchè no?) lo fa arrabbiare.
Il baseball, concludendo, non è per pochi. Siamo noi (intesi come movimento) che cerchiamo di farlo rimanere per pochi. Riuscendoci purtroppo benissimo.
Gli americani invece riescono a far credere che siano per tutti (e forse qui sta la differenza) le cose più incredibili. Leggevo dichiarazioni del Presidente George daboliu Bush a margine delle nuove (per modo di dire, non è che Schiaparelli col suo telescopio avesse scoperto cose particolarmente diverse) informazioni arrivate dal pianeta Marte. L’ex genio del mercato del baseball (cedette Sammy Sosa) e attuale rivale del nostro Presidente del Consiglio nella gara a chi la spara più grossa si è un attimo eccitato di fronte alla prospettiva che su Marte ci sia vita (qualche batterio, mica omini con le antenne…) e ha chiesto alla NASA di progettare una base lunare che funga da punto di partenza per le missioni su Marte. Tra le altre cose, daboliu pensa ci possa stare anche un albergo per turisti.
Sono invidioso per chi ci andrà, perchè persino l’avventato George non pensa sarà pronto prima del 2050 (veleggerò all’epoca verso i 90 anni, ammesso che l’alimentazione a base di crostacei imposta dai Vertici Federali non mi abbia già fatto passare al creatore). Anzi, vi confesserò che andare nello spazio è il mio vero e proprio sogno nel cassetto.
Per questo, propongo al popolo dei miei lettori se vuole iniziare una colletta per aiutarmi almeno ad approdare alla stazione spaziale orbitante. Si tratta di raccogliere solo 20 milioni di euro. E ne ricavereste un Diario in assenza di gravità che potrebbe essere sensazionale.
Intanto che ci pensate, inizio a fare ginnastica per la selezione…
8 marzo- Il giorno della mimosa
Questa settimana la rubrica è dedicata a tutte le donne, amiche degli sms (presenti e future) ovviamente comprese. Mi rendo conto: non è il pensiero più originale del mondo, ma l‘8 marzo mi fa da sempre venire voglia di regalare le mimose. Che a ben pensarci sono l’unico fiore che regalo. Provo una certa antipatia per le rose e le loro spine e ritengo un investimento migliore un bel libro. Adattissimo alla giornata di oggi è Il diario di Bridget Jones di Helen Fielding, ma anche Il mondo di Alice di Cathleen Shine fa la sua figura. Ma torniamo alle mimose.
Economici, al punto che molti fioristi nemmeno si sognano di venderli per 364 giorni all’anno (quest’anno, 365), questi fiori gialli e dotati di un profumo che devo ancora decidere se mi piace o no, raggiungono le quotazioni del platino l’8 marzo. In effetti, c’è un che di glorioso nello spendere 5 o 10 euro oggi per qualcosa che domani pagheremmo 50 centesimi. Ma è bello così. A questo punto, invito tutte le amiche del Diario che non hanno ricevuto almeno un ramoscello di mimose a contattarmi. Voglio fare una cernita di quanti uomini cattivi ci sono in circolazione.
Sono un cronista itinerante e quindi non ha senso che mi stupisca troppo per il fatto che tocco ogni settimana diversi punti della penisola. Però dovete ammettere che il tour Parma-Grosseto (via La Spezia-Livorno)-Perugia-Roma-Parma che ho compiuto da venerdì mattina a domenica pomeriggio non è indifferente. Oltretutto, mi ha dato la possibilità di passare in poche ore da situazioni climatiche estreme. A Roma sabato sera c’era chi (magari mostrando un ottimismo eccessivo) cenava all’aperto. Viceversa, in cima al Passo della Futa domenica pomeriggio sembrava di essere al Polo Nord; anche la temperatura zero che i vari schermi della stazione di Bologna mi sbattevano in faccia non scherzava, comunque. Ero là, solo soletto, in mezzo ad una folla di viaggiatori che si spendeva in addii più o meno lacrimevoli e quasi mi stavo rattristando. Poi sono entrato nei bagni della città che chiamano la Dotta. Li ho trovati disgustosi (aspiranti Sindaci, andate a darci un’occhiata…), per la cronaca. Ma mi hanno proposto una scena che non dimenticherò tanto facilmente. Un uomo di mezza età, pelle scura da poter essere definito un Arabo, si scaldava le mani intirizzite sotto il getto dell’asciugatore.
Sono stato la prima volta a Roma che non camminavo nemmeno. Avevo 10 mesi e, naturalmente, non posso ricordare nulla. Da quel giorno nella Capitale sono giunto con frequenza almeno annuale. Ma non posso dire di conoscere Roma, se non attraverso i luoghi comuni e la lunghissima serie di film che nella Capitale sono stati ambientati.
Un paio di cose però non me le sarei mai aspettate. La prima è che nei ristoranti il pane venga proposto a cestino, neanche fossimo in Francia. Lo confermo: se a Roma chiedete 2 volte di pane, vi trovate 2 voci diverse nel conto. Disdicevole davvero, eh? La seconda è che gli abitanti di Roma si offendono tremendamente se si mette in dubbio l’efficienza del sistema di funzionamente della Capitale o se si insinua che il romano medio non è che muoia dalla voglia di lavorare, se paragonato a “noi efficienti cittadini del ricco nord est”.
La mia categoria preferita di abitanti di Roma è quella dei tassinari, con i quali passo un discreto numero di ore per gli spostamenti (nessuno ora mi verrà a dire che potrei muovermi tramite autobus o metropolitane, vero?). Il tassinaro medio si arrabbia quando ci sono gli ingorghi (più o meno sempre) e cerca di dimostrarvi che lui, e solo lui, saprà portarvi in un tempo ragionevole dove volete andare. In effetti, gli ingorghi romani sono più umani rispetto a quelli della tangenziale di Milano. A Roma ad ogni sosta si ha in effetti l’impressione che da lì non ci si muoverà più, ma poi il traffico ricomincia a fluire, il tassinaro si infila a Villa Borghese e, in men che non si dica, arrivate a destinazione, magari chiedendovi come avete fatto a non schiantarvi in quella rotatoria piccolissima. A Milano la coda è sostanzialmente finta. Sbuca dal nulla (abitualmente dopo una curva) per motivi del tutto incomprensibili e svanisce, per motivi altrettanto incomprensibili, quando avete ormai esaurito la batteria del telefono cellulare chiamando (con auricolare, ovvio) tutti i numeri della rubrica.
A Perugia ho dormito in un maniero che mi incuteva anche un certo timore, dislocate com’erano ovunque armature e armi d’epoca. Mi ero anche convinto che in camera ci sarebbe stato freddo, ma dal Medioevo ad oggi sono stati fatti in questo senso evidenti progressi e le camere erano riscaldate. Forse anche troppo. Penso alla visita a Perugia piuttosto spesso, specie perchè sono stato presentato alle società locali come “la voce del baseball italiano”. Suvvia, così mi fate commuovere….