Grande Germal, io c’ero!

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Anche il 1976 era un anno bisestile. E quasi turbolento come questo 2016 che stiamo vivendo. Libano e Siria erano in guerra e raggiungeranno una pace, garantita dalla Lega Araba, il 10 giugno. Sarà pace più teorica che pratica: il giorno 16 a Beirut sarà assassinato l’Ambasciatore Americano Francis Meloy. Un paio di giorni prima a Genova le Brigate Rosse avevano ucciso il Procuratore della Repubblica Francesco Coco, che aveva rifiutato di trattare con loro. I disordini conseguenti alla manifestazioni contro l’Apartheid provocheranno 100 morti a Soweto, Sudafrica.
Alle elezioni politiche italiane la DC ottenne il 38.8% dei voti contro il 34.4% del PCI.
Sempre a giugno, Felice Gimondi vinse il Giro d’Italia e Adriano Panatta si impose agli Internazionali di Francia al Roland Garros.
A ben pensarci, la novità che si sarebbe rilevata più importante per il mio futuro fu la decisione della Corte Costituzionale, che il 25 giugno dichiarò legittime le trasmissioni radiotelevisive a copertura locale di reti private.

In postazione a Parma il 10 giugno con il mio cappellino con la "g"
In postazione a Parma il 10 giugno con il mio cappellino con la “g”

Non so dire se, in attesa di compiere 13 anni, ero esattamente felice nell’estate del 1976. Frugando nella memoria, mi verrebbe da dire di sì. Di sicuro non avevo troppi pensieri a preoccuparmi. Per dire: il fatto che la nazionale di calcio giocasse su campi da baseball riconvertiti contro i Cosmos di Pelè, non mi faceva tanto pensare a George Washigton e all’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, ottenuta 2 secoli tondi prima. Piuttosto mi inorgogliva il fatto che noi italiani eravamo parecchio più bravi a calcio degli americani. E mi tranquillizzava il fatto che Pelè ormai non era più il mostro che mi aveva fatto piangere 6 anni prima, salendo in cielo per colpire di testa e fare gol ad Albertosi, mentre Burgnich (che nome, però…) cercava invano di ostacolarlo.
Una sera ero rientrato a casa che erano quasi le 10 di sera. La giornata lunga dell’estate mi aveva ingannato ed ero troppo impegnato a mangiare ciliege sugli alberi della proprietà del mio amico Benni, perchè mi venisse in mente di telefonare a casa per avvertire che avrei tardato. Al mio rientro, il televisore (un Synudine in bianco e nero; mi ricordo benissimo la marca, perchè ero orgoglioso che fosse il nome di una squadra di basket di Bologna) era spento. Così dissi a mio padre: “Ma non stai guardando la partita?”.
Non reagì neanche tanto male (ma, sia chiaro, nemmeno troppo bene…). Dopo che ebbe finito di urlarmi che avevo fatto preoccupare tutti (chiamandomi bestione, che è il peggior insulto che sia mai arrivato a rivolgermi), accese comunque il televisore. E commentò: “Mah, stan giocando su un campo da baseball…”.

Finita la scuola e concluso il campionato di calcio, la mia vita ruotava attorno a 2 occupazioni: scoprire se mi stavano tenendo nascosta quella che io consideravo l’inevitabile scoperta di vita extraterrestre su Marte e il baseball. Diciamo che il baseball era l’attività più riconoscibile che svolgevo, perchè le mie indagini sulle notizie che arrivavano dalla sonda Viking (in orbita attorno al pianeta) non le condividevo con nessuno.
Dico baseball in modo generico perchè la mia attività era di diversi tipi: giocavo ufficialmente (ma con risultati mediocri: il manager Mario Furlotti non ne voleva sapere di farmi diventare il catcher titolare dell’OrSa), giocavo ufficiosamente  tutti i pomeriggi (a volte con una manico di scopa come mazza, ma sono dettagli; lì primeggiavo già di più), guardavo le partite e seguivo quasi tutti gli allenamenti, soprattutto allo scopo di guadagnarmi la fiducia di un ignaro Giulio Montanini (il manager), che aveva il potere di promuovermi a raccatamazze ufficiale.

Giulio Montanini arringa i giocatori della grande Germal
Giulio Montanini arringa i giocatori della grande Germal

Quando il 10 settembre la Germal vinse 7-0 contro il Rimini e il primo scudetto della mia città divenne ufficiale, ricordo che con mia madre, mia sorella e i miei amici Marcone e Ughetto tornammo a piedi dal (non ancora) vecchio Europeo e ci fermammo a prendere un gelato nei pressi della stazione ferroviaria. Fu mia l’idea di chiedere fiordilatte (bianco) e pistacchio (verde) per iniziare a formare una bandiera tricolore. Ma ebbi bisogno di una consulenza per aggiungere l’arancia, il gusto col colore più vicino al rosso che fosse disponibile.
Ancora oggi ricordo le 3 sconfitte stagionali (a fronte, è noto, di 51 vittorie) di quella formidabile squadra: 6-5 a Nettuno l’8 maggio, 2-0 in casa con la Fortitudo Bologna il 16 maggio, 2-1 in casa contro il Firenze il 4 settembre.
Roba da matti, irripetibile. Pensate che Daniel Miele e Stefano Manzini chiusero il campionato senza perdere nemmeno una partita (credo che i 3 perdenti siano stati Di Santo, Bertoni e Gioia. Però non ci giurerei). Lo stesso anno Giorgio Castelli (Ciostro, non ho mai capito perchè) arrivò a 100 fuoricampo e 1000 valide. Aveva da poco compiuto 25 anni.

La sera di venerdì 10 giugno 2016 ero al nuovo Europeo-Nino Cavalli di Parma per coprire (come si dice in gergo giornalistico) la partita tra Parma e Novara e mi sono sentito orgoglioso quando ho salito le scale per arrivare alla mia postazione indossando il cappellino verde con la mitica g, replica di quello del 1976. Orgoglioso perchè ho ripensato a quanto quelle g abbiano reso felice il ragazzino che ero. Solo un po’ dispiaciuto perchè il professionista che sono non può fermarsi per la festa programmata per sabato 11. C’è infatti un’altra partita da coprire in un altro stadio. Che, adesso che ci penso, è il primo stadio in cui ho visto una partita di baseball lontano da Parma: il Gianni Falchi di Bologna, dove mia madre mi portò a vedere la Germal contro la Famir in cui giocava Bobo Tommasin, oggi Presidente del Padova.

Chiudo l’album dei ricordi del ragazzino prendendo a prestito una frase di Eleanor Gehrig, moglie di Lou, e parafrasandola: “In quei giorni lo stadio da baseball era il posto di Parma dove si doveva andare per forza”.
Per le considerazioni razionali del professionista su quel che è stato, uso un po’ di tempo per far passare l’emozione.