Riprendo la pubblicazione dei Diari del 2003 con la puntata del 26 maggio proposta integralmente. Secondo me, merita. Sia perchè sono particolarmente molesto, sia perchè si inizia a capire che qualcuno nel nostro mondo è pochissimo dotato di senso dell’umorismo. Sia perchè nei Forum sono al momento popolarissimo, ma le cose cambieranno. Divertitevi a cercare di capire chi è il giocatore che è nato lo stesso mio giorno e mese e che ha il cranio “lucido”. Un indizio: oggi non gioca più.
26 maggio- Gli amici del “Gianni Falchi”
Mi dispiace deludere il giocatore di baseball col quale condivido giorno e mese della data di nascita e la lucidità (esterna) del cranio, ma delle mie divagazioni sul Cacciucco importa a diversa gente. Addirittura, ho ricevuto un invito via e-mail a mangiarlo a Livorno, il Cacciucco in questione. Fra le altre cose, mi sono definitivamente rassegnato a chiamarlo Cacciucco con 4 c da quando ho visto che anche la pubblicità Buitoni si è adeguata, con le buone o più probabilmente con le cattive. Tutto sommato, potrei prendere il posto di Abatantuono come testimonial, quando si sarà stancato. Cosa ne dite?
Un’ulteriore precisazione diretta al mio amico di cui sopra: io non sto affatto cercando di scrivere un’altra Guida Michelin. La mia (meglio la nostra) si chiama Guida Panda ed è frutto di almeno 3 lustri di ricerca di posti nei quali mangiare o troppo presto o troppo tardi rispetto agli orari canonici dei ristoranti.
Ho scoperto solo venerdì scorso l’esatto funzionamento del condizionatore installato sulla Renault Clio grigia, omologata da cronista itinerante. Quando ormai ero sul punto di recarmi dal concessionario che me l’ha venduta prima che scadesse l’anno di garanzia, ho visto con terrore che sbagliavo semplicemente la direzione del getto d’aria. Così, potrei avere l’artrite alle caviglie nei prossimi anni, per aver avuto aria a 2 gradi sottozero nei piedi per un anno intero nel vano tentativo di rinfrescare l’abitacolo.
A me, oltretutto, queste macchine con l’aria condizionata stanno anche antipatiche. Ho desiderato per anni guidare con il gomito appoggiato che spunta dal finestrino abbassato, icona delle estati della mia infanzia nella campagna laziale, e quando finalmente posso, mi mettono il condizionatore e vanno tutti in giro con i vetri chiusi come d’inverno. Manco fossimo americani.
Mi diceva una mia amica che vive in California, quando ancora era mia amica, che la maggior parte dei guasti che accadono alle auto dalle sue parti sono prodotti dall’eccessivo uso del condizionatore. La gente si ferma in coda, ha caldo, alza l’aria condizionata e la macchina si surriscalda, così ha ancora più caldo, mette l’aria condizionata a manetta e scoppia tutto.
Se mi trasferisco in America, smetto di fare il giornalista e apro un’officina di quelle che vanno a recuperare le auto incidentate.
Come vedete, non difendo sempre gli americani. Lo dico perchè si sta spargendo questa voce che io difendo gli oriundi a tutti i costi a discapito dei bravi ragazzi che studiano e lavorano e sputano lo stesso l’anima in campo.
Bella, questa. Dicono che li difendo solo perchè cerco di spiegare un concetto che nel 1982, durante la prima lezione di Diritto della mia vita, ho capito subito al volo: che la cittadinanza italiana si trasferisce per discendenza. Ergo, se anche passano 418 generazioni, uno ha il diritto di vedersi riconosciuto lo status di Italiano.
Comunque, vorrei comporre una canzone dal titolo: “Anche gli oriundi hanno una mamma che vorrebbe venirli a vedere giocare”. Come testo, sarebbe più o meno dello stesso valore di quello di Sting che diceva che “Anche i russi amano i loro bambini”.
Sarà che sono molto intelligente, io. Oltre che sul fatto che lo status di oriundo non esiste, mi scontro spesso con chi sostiene che apprendere il baseball è difficile. Certo, finchè tutto quello che si scrive di baseball è “rl, bv, pgl” e le classifiche vengono pubblicate “Italeri 914, La Gardenia 765” c’è il caso che molti non capiscano di cosa si sta parlando.
No, non è che nel baseball si fanno così tanti punti. E’ una percentuale: gare vinte, diviso gare giocate e per mille. Perchè non ci limitiamo semplicemente a stilare le classifiche con partite giocate, vinte e perse? Me lo chiedo anch’io.
La mia collezione di personaggi conosciuti sul forum e visti di persona aumenta. L’unico neo è che non riesco a riscuotere nessuna delle varie birre che mi sono state promesse.
In compenso, al “Falchi” di Bologna siamo passati dal vino ai super alcolici. Quella che mi avete dato venerdì era grappa, questo non si discute. E nella telecronaca si è sentito: “Liverziani…eh, non è un gran bel week end per lui…certo che resta un battitore pericolo”..BUM…fuoricampo da 3 punti.
Bello constatare al “Gianni Falchi” un’altra cosa. Ho scritto un articoletto per il programma che viene distribuito all’ingresso. Nel testo ricordavo di una simpatica serie di improperi a cui ero stato sottoposto a Parma da qualche centinaio di tifosi della Fortitudo.
Oh, non che ci sia stato uno che ha detto “Ma come hanno potuto…io non lo avrei mai fatto”. No, tutti quelli che ho incontrato si sono affrettati a dire “C’ero anch’io”, vantandosene!. E poi mi danno anche del tifoso bolognese, cento chilometri più a est. Mah!
Ci avviciniamo all’ estate. Vi propongo questo estratto del Diario del 2 giugno, perchè celebra la nascita del mito di Alina. Un concetto che ci farà comodo più avanti.
Procedevamo in 4 sull’ammiraglia federale. Il bolide nero viaggiava a passo d’uomo e almeno in 3 avevamo pensieri nefasti. Eravamo in 4, però. E il quarto ha pronunciato la parola magica: Alina. Il quarto è un celebrato ex campione cubano che lavora in Italia come tecnico. Chiedo scusa a lui e al suo mito se non mi sono reso conto subito di quanto fosse assolutamente irriverente che io sedessi nel posto a fianco dell’autista e lui dietro di me.
Ci ho pensato oggi, durante un viaggio in treno che completava il mio triangolo di itinerazioni, quando sono giunto alla conclusione che la sua media battuta vita è meglio della mia, anche se lui ha giocato ai Mondiali e io sto scivolando verso gli ultimi posti del line up di una squadra di slow pitch. Sui fuoricampo, poi, neanche a parlarne. A baseball l’ultimo lo devo aver fatto in età da Cadetti, poco prima di aver lasciato il baseball per passare al rugby. A softball invece, tutto ciò dopo aver fallito anche a pallavolo, pallanuoto e calcetto, ho ottenuto al massimo un paio di tripli (…conoscendo come corro, dovevano comunque essere battute molto profonde…) e diversi doppi.
Cosa c’entra il mito vivente con Alina? Il Re dei (o degli? Decidete voi…) jonrones vive a Cienfuegos. E anche Alina è di Cienfuegos. Chi o cosa è Alina? Se ve lo dicessi adesso, non sarebbe più il tormentone dell’Estate, vi pare?
Dopo essermi lamentato della dieta a base di frutti di mare alla quale vengo sottoposto dopo aver esaltato il Cacciucco, il 16 giugno mi lancio in un’invettiva sulle similitudini tra il nostro baseball e la DDR. Che inizia dagli stadi
Domenica volevo stare senza baseball nè softball. Però non ce l’ho fatta.
Sono andato al cinema per vedere un film intitolato Good Bye Lenin. E’ un film tedesco che narra di una donna di mezza età residente a Berlino Est e assolutamente in linea con il Governo Honecker, che cade in coma e si risveglia dopo la caduta del Muro. Per evitarle uno chock, il figlio riproduce la vecchia Germania Est in casa.
A parte che vi consiglio la visione del film (dolcissimo e divertente, lucido e intelligente), non trovate che sia la stessa cosa che abbiamo fatto per anni noi coi nostri sport? Trovarci sempre i soliti negli stadi, sempre i soliti in campo, sempre i soliti in tribuna stampa a raccontarci che andava bene così. Quello che mi chiedo è se, effettivamente, siamo riusciti ad abbatterlo questo benedetto Muro. Attendo risposte.
La vocazione da Cortina di Ferro dei nostri sport penso che si intuisca guardando gli stadi.
Dico, in Italia importiamo dall’America di tutto (compresi i pop corn dolci) ma per gli stadi da baseball ci siamo ispirati ai cubani e a quelle loro balconate così utili se qualcuno deve arringare allo stesso tempo arbitri, giocatori e la folla, ma che in assenza di un tale personaggio (o forse, chi ha preso quei progetti ad esempio, aveva qualche idea al riguardo?) servono solo a fari iniziare i posti per il pubblico più lontani dal campo.
La partita di baseball dall’alto lasciatela vedere alle telecamere. A livello del terreno sentite il rumore della mazza, il rumore degli spikes che calpestano la terra battuta, il profumo delle sostanze con cui i giocatori migliorano l’impugnatura della mazza. Siete lì, insomma, quasi a giocare. Non infognati su spalti di cemento che, da luglio a settembre, emanano più calore di una centrale nucleare.
Chiudo con una domanda dalla cui risposta potrebbe dipendere molto del futuro del baseball italiano. Abbiamo stadi in Italia che sia piacevole frequentare anche quando lo spettacolo che si vede in campo non ci fa fare salti di gioia?
Con il prossimo Diario, andiamo sullo schiropensiero classico
16 giugno- Io, amico degli oriundi
Sono sempre stato un personaggio ingombrante nel baseball italiano. Non, o non solo, per le mie non indifferenti dimensioni però. Piuttosto, ho sempre avuto un altro grave difetto: ragiono con la mia testa. E questo deve sembrare davvero un peccato mortale in un mondo nel quale hanno più peso le leggende metropolitane delle norme.
Prendete Parma, la città dove vivo, che cifre alla mano resta la capitale del baseball in Italia: una squadra in A1, 3 in A2 e 2 in B. Bene, Parma è la capitale del baseball ma questo sport sta cercando di ucciderlo. A Parma il vecchio gioco si sta cercando di trasformarlo da sport a gioco di società, con ognuno che ha la sua bella posizione garantita e nessun seccatore che gliela può insidiare.
Parma, che vive ancora di un passato che ricorda in maniera distorta: “Ah, la Germal dei parmigiani“. Erano 2, Cattani (non sempre titolare) e Castelli, con qualche intrusione dell’allora giovanissimo Corradi.
“Ah, gli stadi pieni dei tempi dei Donzelli“. Mai visti. Anzi, forse una volta, nel 1991, quando si giocò la finale col Verona.
“Ah, una volta prendevamo solo americani bravi”. Mica vero: Bob Di Grazia lo soprannominarono disgrazia; battevo più io di Tim Bruno; l’unica cosa notevole di Bill Simpson erano i baffi; Chris Willsher lo cacciarono dopo 3 partite; David Leeper me lo ricordo solo perchè aveva l’anello delle World Series; Wyatt aveva la spalla maciullata; Johnny Paredes dall’interbase non arrivava in prima…
Il nemico del baseball di Parma sembra siano gli oriundi, che rubano posto agli svariati talenti parmensi che giocano ad esempio a Reggio Emilia (che in effetti è penultima) o hanno giocato a Modena (che infatti adesso si rivolge al mercato americano o venezuelano) o a Codogno (in A2) o Novara (idem).
La cosa più bella è che ho fatto un calcolo di quanti giocatori locali avessero le squadre di A1 sera, se paragonati ai 6 (Bova, Bertolini, Brambilla, Fochi, Vasini e Finetti) che Parma aveva in campo. E il risultato è sorprendente:
Grosseto 5 (Ermini, Gasparri, Bischeri, Bindi e Ginanneschi); Reggio Emilia 1 (Guardasoni); San Marino 1 (Lonfernini) estendibile a 3 con Tassinari e Astolfi (Sant’Arcangelo e Rimini, credo) e a 4 con Crinelli (Pesaro); Bologna 2 (Frignani e Landuzzi, con apparizioni di Breveglieri, Monari e Gamberini); Anzio 5 (Santolupo, Casolari, Scorziello, De Rossi e Bosco) più un po’ di nettunesi (Imperiali, Fernando Ricci e Sanna); Nettuno 7 (Schiavetti, De Franceschi, D’Auria, i 2 Mazzanti, Paoletti e Diego Ricci); Firenze 4 (Osella, Pinto, Duimovich e Pugliese, forse 5 con Neri, che ammetto di non sapere da dove viene); Modena 5 (Laffi, Malagoli, Roversi, Generali e Giugni); Rimini 4 (Chiarini, Gambuti, Evangelisti e Crociati).
Traete voi le vostre conclusioni.
Il baseball italiano ogni tanto mi offre anche cose che mi aprono il cuore alla speranza. A Rimini venerdì sera ad esempio ho visto Nilsson. Non che per l’occasione abbia giocato benissimo, anzi, si è prodotto in qualche swing ampio alla ricerca dell’homer ma ha avuto scarso successo. Però era lì, una presenza POSITIVA. A fine partita, mentre mi aggiravo per il campo, ho visto un bambino (forse figlio di un suo compagno) chiedergli: “Dingo, mi rilanci la palla?”. Lui pazientemente lo ha fatto, prima di mettersi a firmare autografi. Al di là di quel che si rende in campo, questi sono atteggiamenti da campione. (Mi duole aggiungere oggi che Nilsson lasciò passare qualche settimana e poi abbandonò l’Italia definitivamente)
In questi giorni circola su Telepiù (come sapete, diventerà SKY) il film “61”, diretto da Billy Crystal. Narra la storia della stagione in cui 2 giocatori degli Yankees (l’idolo delle folle Mickey Mantle e il meno amato Roger Maris, figlio di contadini dell’Arkansas, un redneck…insomma, una sorta di oriundo ante litteram) si contendevano il record di fuoricampo di Babe Ruth.
Maris fu fatto oggetto di veri e propri episodi di razzismo, a cominciare dalla decisione presa dal Commissioner di convalidare un eventuale record solo in caso fosse stato ottenuto in 154 partite, quante ne aveva giocate The Babe.
Tutti sapete come andò: Maris battè 61 fuoricampo ma in 162 partite e il suo record venne riconosciuto come assoluto solo nel 1991, quando Roger era già morto da anni. Il film è comunque un’esemplare storia di sport che parte da quel che gli americani hanno sempre sostenuto: “Il baseball è una simulazione della vita“.
Nel caso di Roger Maris, fu qualcosa di più. La stampa lo assediò per mesi, cavandogli parole che sui giornali avevano solo risonanza negativa. Come la volta che Maris, che risiedeva nell’allora tranquillo quartiere di Queens, lontano dalle luci di Manhattan, dichiarò: “Mah, io non sono il tipo che ama la vita notturna” e un giornale sparò in prima pagina: “Maris: io non sono il tipo giusto per New York”. La reazione dei tifosi fu ovviamente piuttosto ostile.
Nel film Maris, disperato, parla con Mickey Mantle e commenta così l’episodio: “Cavolo, mi sta bene che scrivano di tutto su quel che faccio in campo. Ma sulla mia vita privata no”.
Se tutti i giocatori ragionassero come te, le cose nel nostro baseball andrebbero meglio, Roger.
Mi preparo a trasferirmi in Olanda per l’Europeo e la Qualificazione Olimpica. In una puntata del Diario piuttosto stizzita, il 23 luglio dichiaro senza mezzi termini che chi non ama la rubrica, può non leggerla. Ma non la trasformerò in una rubrica tecnica. Piuttosto, la lascerò morire.
Riprenderò la pubblicazione dei Diari del 2003 da quelli scritti in Olanda. Qui chiudo con un’estratto di un articolo che avevo comunque pubblicato su Baseball.it a commento della Coppa Campioni. Magari da leggere in abbinamento a quel che ho scritto per questo sito sulla superiorità che oggi il baseball italiano dimostra nei confronti di quello olandese.
La Coppa dei Campioni riprende mestamente la via dell’Olanda. Mestamente per noi italiani, che non la vinciamo da 4 edizioni di fila, meno per il Neptunus Rotterdam, che questi tornei li ha tutti vinti.
Non è stata una gran Coppa, comunque. E con questa formula non lo potrà mai essere.
Al pubblico è stata mostrata una sola partita degna di interesse: la finale. C’è da chiedersi se la Federazione Europea faccia apposta a togliere interesse alla sua più importante manifestazione per club, perchè se è così, va detto che raggiunge lo scopo benissimo.
Ricordo sempre con rimpianto la Coppa a girone unico, con finale al meglio delle 3 partite tra le prime 2 classificate. Non esiterei a definire interessante la formula double elimination modello World Series di College. Qualsiasi cosa, ma non un torneo nel quale i migliori lanciatori (Cordemans e Sanchez) stanno in vacanza da martedì fino a sabato sera (detto tra noi, 2 inning martedì li potevano anche lanciare, giusto per vedere i battitori…) o l’allenatore dell’Hcaw manda tutti i suoi lanciatori peggiori in campo contro il San Marino “perchè tanto vinco lo stesso” e si ritrova brillantemente a giocare per il quinto posto.
Come se non bastasse, a fine torneo non è stato consegnato un solo premio al di fuori della Coppa, che Aldo Notari e un delegato olandese (era il futuro presidente CEB Esselman) hanno portato in campo con fare circospetto mentre il pubblico stava già sfollando. Meno male che lo speaker si è ricordato di dire che il Neptunus aveva vinto e che il pubblico, non solo olandese, ha applaudito convinto. Non c’era più nessuno che potesse essere coinvolto in una premiazione, allo stadio dei Pirati. Non c’erano più le altre squadre, non c’era chi doveva premiare. Scusate, ma il pubblico di Rimini meritava qualcosa di meglio.