Lascio La Paz con un ginocchio dolorante, la caviglia distorta nei frenetici momenti di ricerca del Baja Outpost a Loreto non guarita, un’abrasione sull’interno dell’avambraccio. Insomma, sono praticamente da buttare via. Però ho visto lo squalo balena.
Sergio Olochea Martinez forse non esercita più e poi non ho trovato a La Paz nessun indizio che qualcuno sta ancora cercando il tesoro sommerso di Sir Francis Drake.
Non è male il concetto che un Corsaro sia diventato Baronetto. Per altro, non è la cosa più spettacolare della vita di Francis Drake che, secondo la storia non ufficiale, fu l’amante della Regina Elisabetta Prima (detta The Virgin Queen, non si capisce se per ingenuità credulona o con sottile humor britannico…) dalla quale ebbe anche un figlio. E, qui la storia non ufficiale diventa leggenda, questo figlio (di cui non si sa, o almeno, io non l’ho trovato, il nome) arrivò a combattere contro l’anglicanesimo e a favore del Papa. Solo dopo che era stato catturato dal suo esercito, la madre Regina gli rivelò da chi discendeva.
Drake, il primo Inglese a circumnavigare il globo (da Plymouth arrivò all’Oceano Pacifico attraverso lo stretto di Magellano nella Terra del Fuoco), era il secondo in comando della flotta britannica che nel 1588 sconfisse la cosiddetta Invincibile Armata spagnola. Ma in qualità di Corsaro, subì anche ingloriose batoste dalla marina dell’altra grande potenza coloniale nelle Americhe. Quando morì (1596) aveva solo 56 anni. A ucciderlo fu una grave dissenteria. Oggi potrebbe far sorridere, ma nel sedicesimo secolo l’Imodium e gli antibiotici intestinali, sempre presenti nella valigia di un viaggiatore di oggi, erano di là da venire.
I Corsari svolgevano un’attività perfettamente legale. Ricevevano infatti da un Governo la cosiddetta lettera di corsa e rappresaglia (dal Francese lettre de course o de marque), che permetteva di aggredire navi mercantili di un paese che aveva recato qualche offesa alla nazione del Governo che conferiva l’incarico. Insomma, si trattava di un modo di fare la guerra senza dichiarare guerra. I Corsari (corsaires in Francese e privateers in Inglese) dovevano cedere parte del bottino ai Governi che emettevano la lettera di corsa ed è anche per questo (oltre che per non subire l’attacco di altri Corsari o dei Pirati che, come vedremo, non sono la stessa cosa) che è nata la romantica (e così amata dagli sceneggiatori) abitudine di seppellire i tesori con l’intenzione di tornare a recuperarli.
Furono Corsari anche Giuseppe Garibaldi (per quanto non sia bello ricordarlo, del nostro Eroe Nazionale) in Brasile e Giuseppe Bavastro, al servizio di Napoleone nel Mediterraneo, nel 1800; prima di loro, Andrea Doria (che fu poi Ammiraglio della Marina della Repubblica di Genova, con i suoi uomini che lo soprannominavano, appunto, Il Corsaro) si dedicò alla Guerra di Corsa nel 1500 al servizio del Re Francesco Primo di Francia. L’ottomano Khayr al Din (detto Barbarossa) va ritenuto il più importante dei Corsari. Nel sedicesimo secolo arrivò a controllare tutto il Mediterraneo meridionale e a trattare da pari a pari con il Sultano Solimano.
Sir Henry Morgan è invece sicuramente il più leggendario dei corsari. Rapito giovanissimo nel Galles, dove era nato con il nome di Hari nel 1635, e venduto come manovale a contratto (in sostanza, uno schiavo), divenne Bucaniere. I Bucanieri erano Pirati e avevano preso il nome (dal francese boucanier) da quei cacciatori di frodo che affumicavano la carne su una griglia (detta barbacoa, dal quale deriva l’Inglese barbeque) al fine di conservarla. Le sue imprese a danno degli spagnoli furono così clamorose, che ricevette la lettera di corsa dagli Inglesi. Arrivò anche a essere Governatore della Giamaica.
Come detto, i Bucanieri erano Pirati. Così come i Filibustieri (dal francese flibustier, tradotto in Inglese freeboater). Erano quindi fuorilegge (non a caso, una volta catturati venivano giudicati in maniera sommaria e quasi sempre impiccati) al servizio solo di loro stessi. Il termine Pirata deriva addirittura dal verbo greco peiràomai, ovvero provare un assalto.
Sulla strada per Cabo San Lucas è quasi d’obbligo la sosta a Todos Santos. Pino Cacucci ne è esaltato, la guida ‘Lonely Planet’ lo definisce “Un villaggio polveroso, ma con una vita culturale vivace”, per via di una serie di gallerie d’arte. C’è anche l’Hotel California al quale gli Eagles si sarebbero ispirati per la loro celebre canzone del 1976. In verità, l’autore della canzone (Don Henley) voleva parlare del contraccolpo culturale avuto da loro, ragazzi del Midwest, arrivati in una California degli eccessi. Non si riferiva ad un vero hotel, ma la sua era un’ allegoria. Di eccessivo, gli Eagles ebbero più che altro le vendite del loro disco, per anni il maggior successo di vendita in America, battuto solo da Thriller di Michael Jackson.
A Todos Santos c’è una spiaggia fantastica (Los Cerritos), alla quale si può solo arrivare a piedi. Qui le tartarughe marine depongono le uova, ma fare il bagno è difficile: ci sono onde alte 4 o 5 metri ed è certamente più adatta al surf, che alle nuotate.
Il Cafè Santa Fe (proprietà italiana) è probabilmente il ristorante migliore di tutta la Baja California (e sicuramente il più caro). In attesa delle portate, arrivano a tavola focacce e pane fatto in casa, l’insalata la si condisce con olio extra vergine di oliva e i ravioli all’aragosta meriterebbero una stella Michelin. Il titolare è tronfio e logorroico e, dopo averlo sentito dire ad altri 2 italiani che non sopporta gli statunitensi, decido che mi conviene assecondare il cameriere, che da subito mi ha battezzato come Gringo.
Così mi preparo per Cabo San Lucas, che è a tutti gli effetti un parco divertimenti per norteamericanos. A tutti gli angoli c’è un bancomat (si possono prelevare direttamente dollari) e tutti parlano Inglese. Viene distribuito anche un giornale (in English, appunto) che si chiama Gringo Gazette.
A Cabo San Lucas proveranno a vendervi a tutti i costi i sigari cubani e quasi tutti vi apostrofano per strada. Al secondo passaggio, già non sopporto più un tizio che mi dice: “Ho trovato un paio di baffi, li hai persi tu?”.
Cabo pullula di centri massaggi, all’esterno dei quali ci sono (misteriosamente…) massaggiatrici in pausa che sono tutte giovani, carine e… spesso dell’Est Europeo. Devono essere centri massaggi con un ampio spettro di servizi. Non a caso, tutte le farmacie fanno sapere, con cartelli quanto meno pittoreschi, che vendono Viagra senza ricetta.
Comunque, Cabo ha anche i suoi vantaggi. Alla Marina (il porto turistico) ci sono 2 grossi ristoranti: Solomon’s Landing e Captain’s Tony. Sono quasi sempre aperti e la qualità è davvero eccellente. La differenza la fa un cameriere antipatico da Solomon, che ci spinge inesorabile a preferire il Capitano (e i suoi Margarita giganti e le sue Fajitas di pesce super abbondanti); ci piace anche il cameriere Ernesto, che arriva addirittura a dire “Però, parli bene Spagnolo”. Cosa non si farebbe per la mancia…
Merita una visita anche Los Claros, un bugigattolo vicino al grande albergo Wyndam (una junior suite, 200 dollari: anche onesto) che propone tacos di qualsiasi cosa. Io ho assaggiato quelli di Marlin.
Noi siamo alloggiati all’hotel Los Milagros, che è su più livelli, ha una bella terrazza e molto verde. E soprattutto è a distanza di sicurezza dai locali notturni, pur essendo a pochi passi dal porto turistico.
Lo gestisce un’americana di nome Sandra che lascia laconici messaggi sulla porta d’ingresso con i post it (“Sono fuori, se avete bisogno chiamatemi al cellulare”).
Pur partiti per “chiedere informazioni e non prenotare nulla”, ci bastano pochi istanti per pagare addirittura in anticipo una uscita in barca per avvistare le balene il giorno di Natale.