World Baseball Classic 2013: da Miami a San Francisco

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Eliminata l’Italia, il World Baseball Classic 2013 cambia per me prospettiva. Ad esempio, sono tentato dall’Ultra Music Festival, che dà un nuovo volto al centro di Miami per il week end. Il vantaggio per me è che diversi locali restano aperti 24 ore. Ma il fatto che ci siano locali aperti 24 ore mi mette di fronte agli occhi quei limiti della società americana che conosco bene. E che non mi impediscono di amare questo Paese.

16 marzo- La Miami Latina e dei contrasti

Questo Ultra Music Festival mi farebbe voglia di andarci, se non fosse che le mie orecchie sono refrattarie a quel tipo di musica. Lo dico perché è impressionante come l’inaugurazione del Festival abbia cambiato lo scenario del centro di Miami.
Dovete sapere che io, ormai da qualche anno, ho sviluppato la tendenza a nutrirmi in autogrill (termine curioso, autogrill; chissà quale etimologia ha, perché è una parola simil anglofona che gli anglofoni non usano, un po’ come autostop) a orari improbabili, soprattutto dal giovedì al sabato sera. Qui negli Stati Uniti (e nel Continente americano in generale) esistono posti aperti 24 ore, ma in centro a Miami non abbondano. Tranne quando c’è l’Ultra. Venerdì notte era tutto aperto 24 ore, compreso Subway, che è un posto che per mangiare un panino è praticamente l’ideale. Il panino ve lo preparano fresco e come volete voi. Ad esempio, davanti a me un tizio si è fatto mettere di tutto, incluso senape, maionese, olio e aceto. Sì, nello stesso panino.
Insomma, venerdì notte a Subway avevano più personale alle 2 che alle 2 del pomeriggio.
A parte me, che mi sono seduto in un tavolino in fondo alla sala per osservare meglio, la clientela era in buona parte formata dagli avventori del Festival. In gran quantità, sciami di ragazze bionde in short (e non è che ci fosse così caldo), i loro accompagnatori (i neri, rigorosamente con il cranio rasato, i WASP invece preferiscono cappellini curiosi). C’erano poi alcuni homeless che, una volta tanto, trovano un rifugio decente.

Giovani in coda per accedere all’Ultra Music Festival di Miami

Pur conoscendo gli Stati Uniti molto bene (ci vengo più volte all’anno dal 2002 e anche prima c’ero stato in vacanza almeno 3 volte), non mi sono mai abituato a vedere persone che dormono per strada. Voglio dire: succede anche in Europa (in Italia magari non a Parma, dove vivo io, almeno non ancora, ma a Roma o Milano non è una cosa insolita), ma qui è proprio troppo frequente, specie nelle città tipo Miami, che hanno un clima che non è mai troppo rigido.
Sinceramente, per me è difficile credere che sia il segnale di una società che funziona.  Questa è una società in cui ci sono persone che non hanno un posto dove andare a dormire e che passano la notte a due passi da alberghi che hanno suite del valore di 1000 dollari a notte. Così non è normale e non può andare avanti. E poi, mi mette una tristezza, vedere queste persone sporche, dallo sguardo perso nel vuoto. Persone che sono state “normali”, ma che per un motivo o per l’altro sono state espulse dal ciclo produttivo. Perché può succedere, ma noi di queste persone non dobbiamo dimenticarci. Si chiama solidarietà ed è una parola che, temo, presto dovremo andare a cercare sul dizionario, per sapere cosa vuol dire.

Vedete, io amo gli Stati Uniti. Ho più volte pensato di venirci a lavorare e lo avrei probabilmente fatto, se mi fosse capitata l’occasione giusta. Ma ho la forte sensazione che gli Stati Uniti di oggi rappresentino quello che l’Italia sta cercando di diventare. E la cosa non mi piace.
Il vantaggio dell’Italia è che un cartello che dice: “Se non funziona questa macchina, usatene un’altra” diventerebbe in poco tempo leggenda. Invece qui, la logica è quella. Ti devo dare una informazione? Te la do. E cerco di farlo nella maniera più comprensibile. A costo di essere banale.
Visto che la macchina del cartello era un bancomat (termine mutuato dal Tedesco, qui li chiamano ATM), qualcuno mi diceva che, tra le righe di quel cartello, bisogna leggere che “Se non escono soldi, non pensare che la macchina sia rotta”.
Sinceramente, mi sembra troppo malizioso.

Miami è una città il cui centro è sul mare e che offre contrasti fantastici. Tipo le palme con i grattacieli sullo sfondo o un tramonto sull’Oceano con un enorme viadotto (da queste parti, il concetto di isola disturba; gli isolotti a poche miglia dalla costa sono tutti collegati con il Continente con ponti mostruosi e le stesse Florida Keys tanto esaltate da Hemingway, oggi sono unite da un’autostrada; è una cosa che ha evidentemente fatto colpo su di me, visto che ho ripreso il concetto nel resoconto dal Texas di qualche settimana fa) con decine di macchine in coda. C’è anche una sopraelevata, che mi ricorda le piste per auto giocattolo che provavo (con scarsi risultati; infatti appena ho potuto mi sono dedicato a scrivere) a costruire da bambino e che è battuta da una specie di navetta spaziale che non ho capito se è una metropolitana o un mezzo per fare un giro turistico.
Miami è anche una città che parla, come prima lingua, lo Spagnolo. Si è anche visto allo stadio giovedì e venerdì sera: contro Repubblica Dominicana e Portorico gli Stati Uniti sono stati costretti a giocare in trasferta.

Angelo Introppi è più o meno dal 2008 che ambisce a entrare all’Ufficio Stampa FIBS. La sua campagna puntava tutto sul fatto che io facevo spendere un sacco di soldi, mentre con lui la FIBS avrebbe risparmiato.
La sua idea è infatti quella di un resoconto degli eventi fatto a costo zero da casa. Costo zero, ma anche contenuti zero: come si fa a raccontare un evento senza immergersi nell’evento?
Adesso che all’Ufficio Stampa FIBS non ci sono più io, mi domando con chi se la prenderà…

18 marzo- In viaggio dalla Florida alla California. E mi chiedo: chi paga?

Angelo Introppi sul blog MyBaseball si chiede “chi paga” per il mio soggiorno durante la fase finale del Classic.
Non voglio assolutamente iniziare una polemica personale con Introppi, che ha il diritto alle sue opinioni (la sua è in effetti una domanda retorica, da leggere “Sono ben spesi questi soldi?”). Ma sottolineare questo tipo di attitudine sparagnina, che è molto comune nel baseball. Ad esempio, la Confederazione Europea Baseball (CEB) all’ultimo Congresso si è vantata di avere riserve per oltre 300.000 euro in banca. Ma annunciava, con rammarico, di non aver potuto spendere un centesimo in promozione e sviluppo. C’è qualcosa che non mi torna.
L’attitudine del buon padre di famiglia (per usare una terminologia cara al nostro Codice Civile) è rispettabile. Ma non sempre è quella giusta. Per combinare qualcosa, è necessario a volte trovare il coraggio per affrancarsi da quella che il grande economista (e mio idolo personale) John Maynard Keynes chiamava La Sindrome del Contabile. Ovvero, per far tornare i conti si risparmia e risparmiando si tagliano investimenti, impoverendo l’attività. Così si è costretti a risparmiare ulteriormente. E si arriva a un punto in cui non si combina più nulla. Ma si risparmia. Se ci pensate bene, il risparmio era un po’ il mantra della gestione Notari.
Quindi, torno a Keynes: “La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nella emancipazione dalle vecchie”.
Per chiudere il discorso: in campagna elettorale (parlo di elezioni FIBS) ho sentito promettere l’acquisto di paginate sui giornali. Ma se non si copre un torneo come il World Baseball Classic, con che cosa si riempiono queste ambite paginate ?

Ho fatto un’esperienza molto interessante, nel mio ultimo giorno a Miami. Sono salito su un taxi per lo stadio e il taxista, un signore distinto e che si esprimeva in un Inglese da persona colta, mi ha chiesto in che veste andavo allo stadio. Alla mia risposta che sono un giornalista che sta coprendo il torneo, il signore in questione si è fermato un attimo e poi ha detto:”Anch’io ho fatto il giornalista”.
Curioso come sono, gli ho chiesto come mai si è trovato a fare il taxista. E il signore (Mark) mi ha raccontato che viveva in Colombia con la moglie ma, dopo il divorzio (tra le righe leggo: oneroso), ha deciso di tornare a vivere negli Stati Uniti.
“Sai, dovevo pur mettere un tetto sulla testa”.
La fine della storia è che domenica mattina (c’era ancora buio, ma considerato che la mia sveglia è suonata alle 6, saranno state le 6.40) ha iniziato a lampeggiare la spia dei messaggi sul telefono in camera.  Beh, era Mark. Che mi diceva che ha proposto a un giornale locale una storia sul fatto che l’Italia ha passato il turno al World Baseball Classic e vuole intervistarmi.

Inequivocabilmente San Francisco

Dalla Florida alla California c’è un sacco di strada. Il Miami-Los Angeles dura più di 5 ore. Oltretutto, la American Airlines deve avermi fregato. Ho comprato un preferred seat che era preferred un accidente (spazio per le gambe, ma avevo una persona a destra e una a sinistra…). Dovrò lamentarmi con il servizio clienti.
Non ho capito perchè, qui negli Stati Uniti si può fare il check in fuori dal Terminal. Forse perchè dentro ormai ci sono solo le malefiche macchinette (che a questo punto, cosa le avete messe a fare, se poi rimettete il check in fuori?) che mi riconoscono una volta su 5. I tipi che curano il check in sono molto collaborativi e vi potete sbarazzare della valigia subito. Il mio problema è che ho fatto una certa fatica a rientrare nelle 50 libbre che la mia tariffa mi concede. Per calare di 4 pound, ho dovuto riempire il bagaglio a mano, con conseguente panico al controllo di sicurezza, quando mi sono caduti svariati media guide Italia e una scatola di mentini (che ho comprato per sbaglio, credendoli chewing gum…) davanti a un agente quanto meno perplesso. Ho dovuto prendere 4 contenitori, con tutta la roba che avevo. E per fortuna, nessuno mi ha chiesto perchè viaggio con 2 computer:  uno è il mio (che dopo la riparazione di Phoenix, si è rotto definitivamente) e uno l’ho usucapito agli uffici federali. Intendo restituirlo, comunque.

All’aeroporto di Los Angeles c’è una pizzeria che vanta il forno a legna. Peccato che la sua idea di pizza Margherita sia con delle orrende fette di pomodoro crudo sopra la mozzarella.
Mangiare una pizza con una giacca che ha lo stemma Italia, ve lo devo dire, attira molta curiosità.
Il volo da Los Angeles a San Francisco durerebbe poco più di un’ora. Peccato che all’aereo si sia guastato il transponder (che il pilota ha spiegato: serve a far sapere alla torre dove siamo con dei messaggi cifrati, io ve la rivendo così) e che siamo partiti con 45 minuti di ritardo. Al momento del rullaggio, una signora colombiana stava ancora parlando in Spagnolo al telefono. Ma nessuno l’ha arrestata.
Il centro di San Francisco è parecchio lontano dall’aeroporto (un 60 dollari di taxi: quando ho visto il tassametro, mi è venuta la tachicardia). Il taxista mi ha chiesto cosa ci faccio a San Francisco (ma avrò la faccia di uno che non ci può venire a fare un giro, a San Francisco?) e quando ha saputo che c’è il World Baseball Classic, si è fatto 2 conti. E poi: “Lunedì sera lavoro! Bene, ci sarà movimento”.
Il Classic fa proprio tutti contenti…

3-CONTINUA