Lunedì 19 marzo c’è stato un momento in cui ho dato il peggio di me. Ero al ‘Roundhouse’ di Londra. A Camden, una cittadina (una volta) che era un po’ il quartiere degli artisti ma che adesso è parte di Londra. Al ‘Roundhouse’, dico dove hanno suonato i Doors e Jimi Hendrix.
Paul Weller stava per salire sul palco. Due donne, parecchio ubriache, mi si sono sistemate davanti. Eh, no! Io sono qui da un’ora, voi arrivate adesso belle piene, e vi fermate qui.
“So solo una cosa, signore. Che davanti a me non vi metterete”.
Una delle 2 mi ha risposto con un “fuck you” che ha scatenato una serie di miei insulti in Inglese: ho fatto ricorso all’ampio campionario della mia esperienza a Torquay (1979…saranno stati insulti un po’ datati, magari)
“Io chiamo il mio ragazzo” ha detto.
“Ecco, vediamo se riesco a spiegare a lui quello che tu non capisci”.
Con questa frase, più che con gli insulti, sono diventato l’eroe di tutti quelli che erano vicini. Non che le 2 donne ubriache se ne siano andate. Anzi, quella che mi aveva detto “fuck you” (e alla quale avevo anche mostrato il dito indice alzato, cosa che non facevo appunto dal 1979) ha anche cominciato a fissarmi e poi mi ha chiesto scusa. E mi ha anche baciato 2 o 3 volte (vuoi vedere che aveva ragione quello là di “Teorema”, con la storia di “Prendi una donna e trattala male???), l’ultima davanti a mia moglie.
Ma diventare l’eroe, mi ha permesso di fraternizzare con un sacco di fan di Paul Weller.
“Ma tu, da quando lo segui?” e “Ma questa maglietta, dove l’hai comprata?”.
Sul finire del concerto, quando ormai i fan più scatenati saltavano a destra e a sinistra, sono stato anche eletto difensore delle persone più deboli. Nella sostanza, ho contenuto quelli che stavano pogando (come si diceva ai miei tempi) con la mia stazza.
Paul Weller ad un certo punto ha detto: “Per quelli che si lamentano che ieri sera ho suonato poche greatest hits, dico che le canzoni che ho suonato saranno…le hits di domani”.
Si riferiva, il Maestro, alla recensione del “Telegraph”, che dopo il concerto di domenica 18 ha parlato di fan delusi.
Paul non è tanto incline ad accettare le critiche. Non aveva nemmeno 20 anni quando scrisse: ‘Standards’. Dedicata ai giornalisti che avevano recensito come mediocre un disco dei Jam. ‘Standards’ dice: “Le regole le facciamo noi e se non ti adegui, fai la fine di Winston”.
Il giovane Weller a paragonarsi al Primo Ministro delle Lacrime e Sangue (in effetti, impallinato dalla stampa, nonostante avesse guidato la nazione nell’eroica resistenza a Hitler….) mostrava già una personalità vagamente ingombrante.
“Paul Weller non accetta le critiche. E’ un artista tormentato, che vorrebbe essere perfetto. Ha un ego così grande che, se entra in una stanza, zittisce tutti”. Lo scrive Paolo Hewitt, amico di Weller, giornalista e scrittore. O meglio, ex amico. Dal 2006, non si parlano più. E Hewitt ha scritto una biografia (non autorizzata, ovvio) dal titolo: ‘Paul Weller, the Changing Man’. Piuttosto velenosa.
‘The Changing man’ è una grandissima canzone di Paul Weller (“The more I know, the less I understand. I’m the changing man…”). Narra la leggenda che il nostro avrebbe zittito un amico che, in auto, aveva acceso la radio: “Non voglio ascoltare questa merda”. Ma la radio stava trasmettendo, appunto, “The changing man”.
Paul Weller dice di sè: “Purtroppo, ho un problema con l’alcol. Non riesco a bere solo qualche bicchiere”.
Negli anni ’90, dopo essersi separato dalla moglie D.C. Lee, aveva fatto uso di droghe. Cocaina, in particolare. E aveva anche detto che la droga lo aveva salvato, in un periodo nel quale pensava di aver perso la vena creativa (scrisse una canzone dal titolo significativo: “Has my fire really gone out?”) e confidava agli amici: “Non sono un vero artista”.
Paolo Hewitt scrive: “Il Paul Weller dei Jam, odierebbe quello che Paul Weller (icona 53enne del rock britannico) è diventato”.
Io, no.
Ho finito il concerto di lunedì sera a Londra con gli occhi umidi (e i piedi doloranti… ma questo è un altro discorso). Ho saltato anche io con “A town called malice”. Ricordo esattamente il giorno in cui comprai il disco. Era una bellissima giornata di Primavera, di quelle che sembra proprio che ci sia un profumo diverso nell’aria. Ed era il 1982 e mi stavo preparando all’esame di Maturità.
Non ho idea di come si suona la chitarra, ma il suono della chitarra mi piace un sacco. Specie quello delle ‘Rickenbacker’ e delle ‘Fender’ del Maestro Paul. Che ha fatto degli a solo fantastici. E io, che ero ad un passo dal palco, ho fissato il suo volto ispirato, mentre cavava le note dalle corde della chitarra.
Non ho idea di come si suona il piano, ma quando Paul ha attaccato ‘Stanley Road’ (1994, l’anno in cui ho vinto…il mio primo campionato di Fantacalcio…non è che posso avere solo ricordi seri!) ho alzato il pugno e gridato. E un tizio (ovviamente mai visto) mi ha abbracciato.
Paul Weller dice: “Non sono una persona nostalgica”.
E infatti, si vede. Ha messo in calendario 6 date al ‘Roundhouse’ e in tutte presenta (dall’inizio alla fine) il nuovo disco “Sonic Kicks”. Tutto di filato. E senza dire una parola.
Lui, che potrebbe incendiare la sala suonando i vecchi successi dei Jam (1977-1982) e degli Style Council (1983-1989). E invece al passato dedica solo qualche canzone (una volta, gli ho sentito fin suonare “All you need is love” dei Beatles…). Perchè il passato è sempre Paul Weller, ma Paul Weller è orientato al futuro. Deve avere, per la cronaca, 7 figli. E la sua attuale moglie Hannah (che duetta con lui in una canzone, dalle tinte reggae, del nuovo disco) non era nata quando io compravo ‘A town called malice’.
Paul Weller ha infilato 3 coraggiosi capolavori dal 2008 ad oggi: il fantastico “22 dreams” (una cifra creativa paragonabile al “White Album” dei Beatles), il sorprendente “Wake up the Nation” e questo “Sonic Kicks”. Che non vedo l’ora che mi arrivi, perchè (come ogni buon fan che ci casca) ho ordinato la versione con il DVD e non posso certo comprarne una seconda copia. O meglio, non potrei…ma se ci mette molto ad arrivare….