Dopo che anche il Sei Nazioni di rugby 2019 è iniziato con una sconfitta per l’Italia (contro la Scozia, l’unica squadra che realisticamente potevamo battere, almeno secondo me…) ho fatto un post su Facebook che ironizzava su questo.
Ho deciso di scrivere questo articolo dopo aver visto i primi commenti al mio post. A cominciare da quelli che non hanno colto l’ironia (“in effetti, dovremmo fare come il rugby”), per proseguire con lo sciovinismo parmigiano (“il rugby è nel Sei Nazioni grazie all’ex presidente federale Dondi”) e agli immancabili riferimenti agli oriundi.
Io non intendevo avventurarmi lungo nessuna di queste strade. Volevo solo punzecchiare i sedicenti esperti di comunicazione e business dello sport che “ah, se il baseball prendesse l’esempio del rugby”. E senza sapere di cosa stanno parlando.
Su questo sito avevo già parlato del caso del rugby, che mi sembrava una interessante metafora dello sport business nel secolo ventunesimo. Oltre che un segnale dei tempi che cambiano.
Chissà perché gli Italiani, che notoriamente si interessano solo agli azzurri che vincono (e non a caso, sono diventati persino appassionati delle regate di Coppa America…non precisamente uno sport popolare…), continuano a seguire una Nazionale che non vince mai.
Nell’articolo, accodandomi per una volta all’opinione della stampa mainstream, ho affermato che quello del rugby è un modello che non ha funzionato. La Federazione ha aumentato, grazie al Sei Nazioni, il suo budget da 8 a 45 milioni di euro in meno di 20 anni (per inciso: già gli 8 erano già circa il doppio del budget FIBS…). Ma queste non infime risorse le ha spese piuttosto male. E tutto il modello è sotto accusa. Il campionato italiano non ha visibilità e le 2 squadre (che costano alla Federazione circa 4 milioni ciascuna) che partecipano al Pro14 (ex Celtic League) non stanno andando da nessuna parte. Inoltre, la Federazione ha 9 Accademie e 36 Centri di Formazione. Spende per gestire tutto questo quasi 5 milioni all’anno. A cui vanno aggiunti i compensi di oltre 100 tecnici. Sui quali Vittorio Munari, dirigente sportivo e telecronista, ebbe a dire: “…vecchi personaggi senza curriculum, ma che portano voti alle elezioni”.
Torniamo a noi. Chi dice di “prendere esempio” dal rugby, probabilmente si riferisce a “raggranellare gli stessi soldi”. Che è un sogno. Se si vuol fare qualcosa per il baseball italiano, è invece meglio tenere i piedi per terra e discutere partendo dalla realtà. E la realtà ci dice che quelle risorse il baseball italiano non le avrà mai.
Il baseball italiano non ha neanche un Sei Nazioni, se è per questo.
Nel 2009 ebbi a scrivere che “Il World Baseball Classic non sta ancora al baseball come il Sei Nazioni sta al rugby. Il paragone in sè semmai potrà farlo il figlio di mio nipote quando avrà la mia età (mio nipote compie 11 anni in questi giorni: auguri!; nel 2009 avevo 46 anni, n.d.a.)”.
Ricordavo anche la genesi del torneo, nato nel 1883 come Quattro Nazioni (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda), divenuto Cinque Nazioni (con la Francia) nel 1910 e Sei Nazioni (con l’Italia) nel 2000. E a questo punto concludevo: “A ben pensarci, quindi, il paragone lo potrà fare il nipote del figlio di mio nipote, quando avrà la mia età”.
Cerco di spiegarmi una volta per tutte: chi indica la via del rugby come quella che il baseball dovrebbe seguire per crescere, delira. Sarebbe come dire che la paninoteca sotto casa mia deve seguire la via di Mc Donald’s, per fare più profitti.
Il baseball italiano deve primo di tutto studiarsi la sua stessa storia, poi prendere atto di come stanno le cose oggi e quindi darsi un modello.
Il compianto (come sempre accade in Italia, particolarmente apprezzato dopo che è morto…) Bruno Beneck ha cercato di imporre un modello che puntasse prima alla notorietà per poi a creare fondamenta. A giudicare da quanto sono rimpianti gli “anni d’oro di Beneck”, ha fatto anche un buon lavoro. Ma c’è un però: gli “anni d’oro di Beneck” non sono esistiti. Almeno, non erano così d’oro come qualcuno li ricorda. E soprattutto “gli anni d’oro di Beneck” sono 40 anni fa. E non torneranno.
Questo baseball italiano alla notorietà non arriverà mai. Non ha un campionato di vertice, non ha una Nazionale vincente, non parteciperà ai Mondiali Under 18 e, quindi, c’è da dubitare che una Nazionale vincente l’avrà tanto presto.
Al baseball italiano non servono pubblicitari che si affannino a creare un nostro Martin Castrogiovanni o inseguano le ospitate con Fazio e De Luigi.
Servono dirigenti coraggiosi, con le idee chiare. E che, quando arrivano a guidare la Federazione, non abbiano come primo obiettivo quello di farsi rieleggere per l’eternità.
Cosa intendo per coraggio: serve la capacità di fotografare lo stato dell’arte. Serve qualcuno che non abbia paura a dire che, prima di formare delle Accademie Regionali, bisogna formare i giocatori su cui le Accademie possano lavorare. Serve qualcuno che dica che non è per forza un successo, avere 10 Regioni rappresentate alle finali giovanili. Un successo è veder giocare con la maglia della Nazionale chi ieri vinceva le finali giovanili. Al baseball italiano serve un progetto di formazione dei giocatori che sia realistico. Ovvero: che non pretenda di tirare fuori il classico sangue dalle classiche rape, ma che investa sugli atleti meritevoli.
Voglio essere io, uno di questi dirigenti coraggiosi? Chissà…