Un giorno dei primi mesi del 2010 ero all’Esecutivo della Federazione Internazionale di baseball (IBAF) e mi stavo annoiando in maniera gloriosa. Solo che avevo la mente vigile e allora mi sono ricordato che mi ero ripromesso di andare a verificare cos’era questo Facebook di cui parlavano in tanti (Faccialibro, lo chiamavano). Da quando ho digitato www.facebook.com quel giorno, Facebook è per me un appuntamento quotidiano. Spesso aprire il mio profilo è la prima cosa che faccio in una giornata e penso di aver raggiunto con il mezzo un equilibrio. Per me Facebook ha diversi utilizzi, che vanno dal cazzeggio libero alla gestione di rapporti personali di vario genere, senza trascurare (lo ammetto) l’auto promozione.
A livello professionale, è diverso.
Nell’autunno del 2012 ho fatto dell’ironia su un certo Carnevale (nome che mi rifiuto di scrivere in neretto, è già molto che lascio la prima lettera maiuscola…), che si sarebbe poi candidato alla Presidenza della FIBS. Non fu una gran battuta: “Non facciamo scherzi di carnevale“. Però mi fece finire in un polverone a base di “L’addetto stampa della FIBS non può”.
Pensavo che la FIBS mi avrebbe difeso, invece mi mollarono (cito il Maestro Paul Weller) come qualcosa di incandescente. Anzi, c’è chi fece di meglio: diede a me la colpa per il fatto che Carnevale alla fine si candidò.
Enfatizzo: nessuno ebbe da ridire sul fatto che Carnevale millantasse pubblicamente di aver inventato i cosiddetti SMS, tanto che non venne mai sottolineato l’articolo di questo sito che dimostrava senza discussione che a inventare gli SMS erano stati altri (o meglio, un altro: Friedhelm Hillebrand). Ma venne fatto un caso politico su un mio post su Facebook.
L’autorevole agenzia di stampa Associated Press (AP) distribuisce a tutti i suoi giornalisti un decalogo sull’uso dei Social Network. AP incoraggia i membri del suo staff ad aprire i loro profili social, li stimola a indentificarsi come giornalisti di AP, ma li avverte del fatto che le loro opinioni potrebbero “Danneggiare la reputazione di AP come fonte di informazione al di sopra delle parti”.
Per la verità, il decalogo di AP dice anche che i suoi giornalisti sono liberi di commentare su argomenti come lo sport e l’intrattenimento più in generale. Ma aggiunge che “prima di deridere una persona o un’organizzazione, pensa che un tuo collega allo stesso tempo potrebbe cercare di utilizzarla come fonte”.
Per chiudere il discorso sul mio caso particolare: ho sbagliato a commentare sul mio profilo di Facebook, ma non tanto perchè quello che ho scritto fosse sbagliato in assoluto, piuttosto perchè chi mi paga era convinto che con quel commento io lo potessi danneggiare.
E’ uno dei concetti emersi in modo chiaro dalla giornata dedicata all’informazione digital e social a cui ho partecipato il 12 novembre 2014 (Roma, sede dell’UniceCredit all’Eur) nell’ambito della formazione continua dei giornalisti. Era un corso a pagamento, eppure si sono iscritti più di 250 colleghi. Come ha detto in apertura Massimiliano Lanzi del Centro di Documentazione Giornalistica: “Evidentemente, l’argomento è sentito”.
Ripartiamo da qui: il networking. Il giornalista usa il social network in maniera efficace se lo fa in sinergia con il suo editore. Questo naturalmente a meno che la sua reputazione digitale non sia già molto alta.
Il concetto di reputazione digitale è estremamente importante e non ha tanto (o almeno: non solo) a che fare con la visibilità di una persona. Primo, perchè quando creiamo il nostro profilo partiamo tutti da zero. E poi perchè sui social siamo tutti soggetti ad attacchi più o meno duri. Approfondirò parlando più direttamente dei media nell’era digitale, ma già sui social bisogna fare i conti con il fatto che il megafono non è più solo in mano agli operatori dell’informazione. Diciamo che è un fenomeno (fatte le debite proporzioni) che ricorda quello della lotta politica negli anni ’60 dello scorso secolo. Churchill non avrebbe mai accettato di poter essere messo a confronto con uno studente che occupava una scuola. E come allora, bisogna poi distinguere tra chi ha qualcosa da dire, e le conoscenze (della lingua italiana, delle tecniche di comunicazione) per dirla nel modo giusto e il cialtrone che cerca visibilità sparando a destra e sinistra informazioni non verificate.
I media, piccoli o grandi, quando usano i social network partono dal concetto base dell’informazione: content is king. Però nel terzo millennio lo ampliano con quest’altro: distribution is king kong (non traduco, perchè In Italiano non riuscirebbe il gioco di parole, ma penso si capisca…). Questo introduce un’altro punto fermo, molto ben espresso al corso sia da Andrea Albanese (l’organizzatore del Social Marketing Day) che da Federico Luperi di ADN Kronos, del SEO (Search Engine Optimization). Un contenuto per essere efficace deve essere ben posizionato sui motori di ricerca. Per dirla con il direttore di Wired Chris Anderson: “Sul web non siamo noi, ma quello che Google dice di noi”.
Sia che si parli di Facebook (più tipicamente una piattaforma social) o della relativa novità di Google+ (che sembrerebbe dare privilegi per il posizionamento sul motore di ricerca di Google, ma chissà che non sia una leggenda metropolitana) o che si parli di Twitter (social tipicamente usato dai giornalisti, specie nel mondo anglosassone), l’approccio ai Social Network oggi è necessario che sia professionale. Si tratta, insomma, di un impegno vero e non di qualcosa da fare a tempo perso. E questo è tanto più vero se si parla di utilizzare i Social Network come strumento di marketing: l’improvvisazione non paga e i milioni di contatti non arrivano dal nulla, come magari ci illudono certi film di Hollywood.
Marco Bardazzi (responsabile del sito del quotidiano La Stampa) ha ad esempio ammesso che l’organico del suo editore (lo ha detto lui: “Il giornale nato nel 1867 si è trasformato in un editore che distribuisce contenuti su diverse piattaforme“) non ha sufficienti forze per moderare tutto quello che viene postato su Facebook. Ma comunque, preferisce controllare quel che può essere detto via Facebook tramite un profilo ufficiale.
Massimo Sebastiani, che si occupa del sito internet dell’agenzia ANSA, ha portato la testimonianza del Wall Street Journal e della sua agenzia Dow Jones: ai cronisti il direttore Gerard Baker chiede di condividere su Twitter le notizie, prima ancora di distribuirle tramite agenzia. Sembra oltraggioso, lo ammetto.
E’ evidente che tutti i media oggi sono alla ricerca di un nuovo modello editoriale.
In Italia ci sono casi di successi notevoli, nel passaggio dalla pubblicazione cartacea a quella digitale e il più clamoroso è quello del Sole 24 Ore. Gli ultimi dati di vendita diffusi parlano di una crescita superiore al 10% dei contenuti digitali. Il Sole offre in effetti contenuti esclusivi, come ha sempre fatto, e ha semplicemente aggiustato la sua proposta al nuovo mercato. Come io mi compravo le istruzioni per la compilazione del modello 740 o la legge elettorale nei Comuni (esigenza personale la prima, professionale la seconda) negli inserti cartacei, così oggi molta gente si scarica sul tablet contenuti che vuole avere sempre a portata di mano. E li acquista dal Sole 24 Ore, perchè altrimenti non li troverebbe.
Per chi offre prodotti meno esclusivi, come è il caso dei giornali sportivi, la battaglia è molto più sanguinosa. Nel mondo d’oggi gli scoop hanno perso di significato. Capiamoci: non dico che non è importante farne, ma piuttosto che non possiamo monetizzarli, perchè nel momento in cui pubblichiamo lo scoop, questo è di tutti. E tenerlo nascosto oggi per averlo sul giornale domani è estremamente rischioso: basterà un tweet di un personaggio che avevamo ritenuto insignificante per vanificare il nostro lavoro.
Al posto degli scoop, sarà sempre di più così, il vero valore aggiunto sarà la presentazione dei contenuti. Il celeberrimo Snowfall del New York Times ha vinto il premio Pulitzer non tanto perchè diceva qualcosa di esclusivo, ma piuttosto per come raccontava la storia della valanga del febbraio 2012 a Tunnel Creek (Washington).
Per chi vende contenuti digitali, c’è anche da considerare questo: il prezzo non può essere molto alto, visto che la concorrenza è ferocissima. Quindi, i profitti si fanno sulle grandi quantità. E scrivendo in Italiano, le grandi quantità sono molto difficili da fare, a meno che non si sia possessori di contenuti esclusivi. Il futuro, insomma, sembra proprio essere di chi potrà contare su qualità uniche, a cominciare dalle firme più importanti.
Lo stesso New York Times, che pure è venduto in Inglese in tutto il mondo, sta scontando il fatto di non avere contenuti propriamente unici e fatica a raggiungere un punto di equilibrio. Al contrario del Financial Times. Entrambi gli editori, comunque, stanno lavorando nella direzione indicata da Amazon: vendere sì i contenuti, ma anche lo strumento per farli propri.
Proprio sul quotidiano economico Inglese oggi ho letto del caso del Sun: ha raddoppiato i suoi abbonati digitali, che sono arrivati 225.000.
Ovviamente il Sun, proprietà di News Corp di Rupert Murdoch (quindi non proprio un piccolo editore…), è scritto in Inglese. Ma quel che è più importante, offre contenuti molto specializzati. Che a me personalmente non interessano (si tratta di un tabloid, tutto scandali e chiacchiere, non ho detto notizie, di sport), ma che naturalmente hanno un mercato piuttosto importante.
Voglio concludere con qualche puntualizzazione.
Sia chiaro, non è che seguendo un corso io abbia appreso ricette miracolose. Come si fa a risolvere il problema del calo delle vendite dei giornali non lo so io e non lo sanno nemmeno i top manager dei principali gruppi editoriali. Ma qualche certezza l’ho fortificata.
Nel mondo dell’editoria che cambia, è comunque sicuro che i giornalisti devono continuare a fare i giornalisti. Perchè la qualità continuerà a premiare. Cercare notizie, verificarle, scriverle in modo sintetico e accattivante, accompagnarle con immagini e video di qualità è l’unica cosa che possiamo fare. Oltre, ovviamente, a cercare di aggiornarci alla stessa velocità con cui le cose cambiano.
Chi urla scemenze senza sapere da dove vengono, solo per fare casino, prima o poi invece sparirà.