Ho scritto più di una volta che, benchè io sia un inguaribile ottimista che crede fermamente di ottenere tutto quello che desidera veramente, mi rendo perfettamente conto del fatto che nello spazio non riuscirò ad andare. Non ho l’età e neanche il fisico. Ma sognare, non mi costa nulla. Con questo articolo, mi congedo per il mio abituale periodo di ferie invernali. Ci rivediamo attorno al 15 gennaio
Martedì 20 dicembre non riuscirò a vedere l’ultima puntata di Mars, la serie prodotta da National Geographic. Che mi ha intrigato molto, vista l’alternanza di una credibile fiction (ambientata tra un 20 anni) con una parte documentaristica, che ci riporta al presente per cercare di spiegare le difficoltà dell’impresa. Sarò in viaggio, su un aereo. Ma se mi conosco, alla luce anche delle letture che sto facendo, dormicchiando mi illuderò di essere su un’astronave che mi porta su Marte.
Sono immerso nella lettura di Green Mars, il secondo libro della trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson. Lo scrittore americano è pluripremiato (il primo romanzo ha vinto il premio Nebula, gli altri 2 l’Hugo), ma decisamente poco noto da noi, fuori dalla nicchia degli appassionati di Fantascienza. Red Mars (il primo romanzo della serie, scritto nel 1992, è stato tradotto in Italiano nel 1995 da Fanucci (Il rosso di Marte). Green Mars (1993) è stato tradotto un paio di decadi dopo, sempre da Fanucci, ed è in libreria dal 29 settembre (Il verde di Marte). Blue Mars (1996) per ora esiste solo in Inglese.
I libri di Robinson sono impegnativi sia come volume (un 600 pagine l’uno) che per i riferimenti scientifici molto precisi e circostanziati. In particolare, Green Mars spiega nei dettagli come avviene il processo di terraforming di Marte. Robinson si inventa anche una serie di manufatti per il terraforming (uno si chiama spoletta) che, essendo questa tecnologia per ora solo teorica, il lettore è portato a chiedersi continuamente se sono reali o meno. Red Mars, invece, è un testo molto più politico e ci spiega come, inevitabilmente, si formerebbero fazioni fra i coloni. Ad esempio, nascerebbe un movimento che si oppone al terraforming, perchè “se Marte è stato così per qualche miliardo di anni, chi siamo noi per cambiare tutto”.
Ma bisogna andare con ordine.
Prima di tutto poniamoci questa domanda: ha senso, ipotizzare di andare su Marte?
Se guardate la prima puntata di Mars, vi rispondono senza indugio. Ha certamente senso, perchè questo praticamente significherebbe azzerare le possibilità che l’umanità si estingua. Se gli esseri umani prolifereranno su 2 diversi mondi, ben difficilmente qualcosa potrebbe cancellarli.
Ho pronta una seconda domanda: è facile, andare su Marte?
La risposta è relativamente sorprendente: arrivare fino là, abbastanza (in fondo, ci mandiamo sonde da decenni; è vero che un robot è meno delicato di un essere umano, ma non sottilizziamo troppo). E’ scendere su Marte, che rappresenta un problema.
Nella miniserie di National Geographic, fanno un casino mica piccolo durante quello che potremmo chiamare ammartaggio (anche se come termine è bruttino) e il capo missione rimane ferito in modo talmente grave che morirà. Ma la difficoltà a scendere non se la nasconde nemmeno Robinson nella sua trilogia, visto che ipotizza una sorta di ascensore per andare e venire dall’orbita. E della difficoltà di scendere è ben conscia l’ESA (Agenzia Spaziale Europea), che ci ha recentemente rimesso il modulo di discesa (Schiaparelli, dal nome del primo astronomo che osservò Marte al telescopio) e che riproverà tra un paio d’anni con l’invio addirittura di un rover.
Atterrare su Marte è difficile soprattutto per il fatto che non abbiamo possibilità di fare prima simulazioni nelle stesse condizioni. L’atmosfera di Marte è completamente diversa da quella della Terra: è molto più rarefatta, quindi è molto più difficile prevedere come sarà la discesa, non essendoci la stessa decelerazione. Inoltre, la gravità di Marte è molto inferiore a quella della Terra.
L’atmosfera è anche il motivo per cui, per rendere il pianeta abitabile, Marte dovremmo terraformarlo. Ovvero (semplifico) farlo diventare più caldo e rendere l’aria respirabile.
Le idee ci sono già: utilizzare specchi orbitali e costruire diverse serre per crescere piante che poi, opportunamente modificate, verrebbero lasciate proliferare all’esterno e aiuterebbero ad assorbire l’anidride carbonica.
Come non nasconde Stephen L. Petranek (giornalista che ha lavorato al Washington Post) nel suo How we’ll live on Mars (libretto molto godibile e che è la base da cui Ron Howard ha tratto l’idea per la serie di National Geographic), è un’operazione che potrebbe richiedere un migliaio di anni, per essere completata. Nel frattempo i coloni dovrebbero vivere all’interno di gigantesche strutture tensostatiche (è molto realistico al riguardo The Martian di Andy Weir, divenuto un film di successo diretto da Ridley Scott), in attesa di costruire vere e proprie città riparate da cupole che lascino filtrare il sole ma siano abbastanza resistenti per non essere compromesse dalle terribili tempeste marziane (a proposito di The Martian, una di queste tempeste dà l’inizio alla disavventura del protagonista). Naturalmente, bisognerà trovare il modo di produrre energia (ad esempio, tramite il nucleare, assemblando magari il reattore sul posto) e trovare il modo di avere acqua a sufficienza (la vera pacchia sarebbe trovare ghiaccio in quantità). Realisticamente, una missione umana dovrebbe essere preceduta dall’invio di navi cargo. Anche se poi, quanto depositato dal cargo andrebbe ritrovato e questo non è che sia da dare per scontato: Marte è grande e deserto.
Per la cronaca, anche Kim Stanley Robinson litiga parecchio con il terraforming e mette spesso a confronto idee diverse e anche taluni fallimenti della loro applicazione.
Mentre io sogno e leggo, Bas Lansdorp (un ricercatore olandese) ha un suo progetto che dovrebbe portare i primi 4 astronauti su Marte nel 2026. Si chiama Mars One.
L’operazione ha un costo da ridere: 5 miliardi di euro. Lansdorp conta di procurarseli con gli sponsor e i diritti televisivi (il viaggio verso Marte potrebbe essere un reality, con tanto di facoltà di scegliere gli astronauti per i telespettatori). Gli astronauti sarebbero consapevoli di fare un viaggio di sola andata e del fatto che ci sono moltissime cose che potrebbero andare storte, non ultimo il decollo con un razzo dalla Terra.
Al suo progetto crede Gerardus ‘t Goot un Premio Nobel per la Fisica. Il MIT di Boston negli USA ha invece (più o meno) chiesto a Lansdorp se fa sul serio o se è impazzito.
Al progetto crede invece il geniale imprenditore (classe 1971, co-fondatore di PayPal, fondatore di Tesla Motors) di origine sudafricana Elon Musk con la sua Space X (Space Exploration Technologies Corporation) ha completato la prima navicella (Dragon, è riutilizzabile) costruita da un privato ad aver raggiunto lo spazio. Nei piani della NASA, succederà allo Space Shuttle. Sta inoltre completando un razzo a 2 stadi (Falcon 9) che potrebbe lanciare l’astronave destinata alla missione marziana.
Elon Musk sostiene che su Marte gli esseri umani potrebbero arrivare a un milione entro il 2060.
Fa tremendamente sul serio, Guardate il video sotto.
Mi sono ripromesso di procurarmi anche il romanzo di fantascienza che Wernher Von Braun (proprio il padre delle bombe V2 e del razzo che ha portato l’uomo sulla Luna) ha scritto nel 1949 e che in Italia è stato ufficialmente pubblicato solo oggi. C’è però da dire che La Domenica del Corriere nel 1954 aveva pubblicato un servizio partendo da questo presupposto: “Von Braun ha ideato un sistema per portare astronavi su Marte”. Quindi, qualcuno il romanzo lo doveva aver letto, magari senza capire che si trattava di un romanzo.
La sesta puntata di Mars la guarderò quando torno a gennaio. Poco male, per sognare sono comunque attrezzato.