Inizio a raccontare il dietro le quinte dello Spring Training della nazionale di baseball

BASEBALL, SPORT, VIAGGI

Quando decisi di interrompere l’esperienza della rubrica “Diario di un cronista itinerante” sul sito Baseball.it, un lettore mi scrisse chiedendomi perchè non avevo pensato di aprire un mio blog. Allora (parliamo del 2004) l’idea mi sembrò assurda. Ma visto che recentemente ho imparato che ‘io non lo farò mai’ è un espressione che non fa per me, non mi stupisco più di tanto per il fatto di essere qui, sul mio sito personale ad iniziare una serie di articoli che possono certamente essere definiti i nipotini di quella rubrica.
Il “Diario” ebbe a suo tempo una grande accoglienza, ma qualcuno mi accusò di usare lo spazio a mia disposizione impropriamente. Bene, di tutto mi si potrà accusare questa volta, tranne che di questo. Il sito, infatti, è mio.
Confesserò che non so bene che obbiettivo mi pongo con questi articoli. Ma alla vigilia dell’ennesimo viaggio in Florida al seguito della nazionale di baseball, mi è semplicemente venuta molta voglia di scriverli. E allora, perchè no?

L'ingresso del Vero Beach Sports VillageCi sono tante cose che non ho mai capito dei voli aerei. Ad esempio, perchè durante l’atterraggio e il decollo c’è la paranoia del sedile in the upright position? Voglio dire: che io non debba sdraiarmi sul passeggero che mi siede dietro, è ovvio. Ma neanche star lì con il goniometro per scoprire se l’inclinazione è quella giusta…Sono considerazioni che faccio dentro di me quando ormai non so più che giorno è. Lunedì sera, 28 febbraio, ho guardato Milan-Napoli in televisione (a proposito, il rigore non c’era assolutamente, ma ho esultato lo stesso) e mi sembra che sia passato un mese. Mentre, a ben pensarci, qui dove sono è ancora il primo marzo.
Nonostante abbia avuto posti meravigliosi sull’aereo, ormai sono insofferente. Nella tratta tra Philadelphia e West Palm Beach sono seduti accanto a me 2 tipi assurdi: una madre anziana e il figlio caso sociale. I dialoghi tra di loro sono agghiaccianti e sragionano a tal punto che io, abitualmente propenso a farmi i cavoli miei, mi sento in dovere di intervenire per far riporre alla donnetta le borse che si porta dietro nella cappelliera. Siamo la prima fila e so che il personale di bordo interverrà per non lasciare bagagli ai nostri piedi. Ma non c’è niente da fare e quando, inesorabile, uno steward interviene, io ho il più classico dei telavevodetto dipinto sul volto.

Se andate negli Stati Uniti ci sono 2 cose che non dovete assolutamente fare: volare in una città americana con uno scalo sempre negli States e arrivare di notte.
Con il fatto che dopo l’11 settembre 2001 la merce che arriva negli USA va sdoganata nel primo porto di arrivo, se per esempio andate a West Palm Beach via Philadelphia dovete sapere che a Philadelphia rivivrete l’agonia del controllo di sicurezza che avete già vissuto una volta (se non due) agli albori del viaggio. E il controllo di sicurezza, se si viaggia in inverno e con un computer, è qualcosa che mi rende veramente insofferente. Soprattutto perchè io sono lento a ricompormi, una volta superato il controllo, e ho sempre paura di dimenticare qualcosa nella macchina che radiografa i bagagli.
Il buio invece, è un dato di fatto, dà agli Stati Uniti un aspetto inquietante. Deve dipendere dal fatto che gli aeroporti sono lontani dai centri abitati e lontano dai centri abitati gli americani spendono pochissimo per l’illuminazione. Fatto sta che quando si arriva negli Stati Uniti con il buio, non si vede l’ora che la giornata finisca. Anche perchè, rimettendo l’orologio almeno 6 ore indietro, la giornata sarà stata molto lunga.La via dedicata a Vin Scully

La nazionale italiana di baseball passerà un paio di settimane a prepararsi in quella che una volta si chiamava Dodgertown e che oggi è il Vero Beach Sports Village.
Camminando per il villaggio, si incontrano vie dedicate a leggende del baseball. Come il giornalista Vin Scully, che iniziò a raccontare per radio le gesta dei Dodgers quando ancora erano a Brooklyn (si trasferirono a Los Angeles nel 1958) e continua tutt’ora, a più di 80 anni, a farlo per TV.
Quando i Dodgers si trasferirono a Brooklyn, Dodgertown aveva per altro già 10 anni. Venne inaugurata infatti nel 1948, come diretta conseguenza del fatto che Branch Rickey (leggendario General Manager dei Dodgers) avesse creato un sistema (che si chiamerà Farm System) per garantire ai giocatori di crescere per gradi (players development) e quindi i Dodgers avevano più squadre (26!) di ogni altro club di Grande Lega. Rickey, insomma, non si scandalizzò più di tanto quando Bud Holman (gestore dell’aeroporto adiacente; a lui oggi è intitolato lo stadio principale) gli propose di ristrutturare la base della Marina degli Stati Uniti, che sarebbe stata smantellata.

Che lo vogliamo chiamare Dodgertown o Sports Village (ma io sarei propenso ad optare per Dodgertown), il luogo è ameno. Regna il silenzio e i campi sono davvero perfetti. Camminare sull’erba dà una sensazione di morbido che è davvero piacevole.
Non sembra che ci sia un grande affollamento. Sicuramente c’è in preparazione la squadra universitaria canadese dei Dragons dell’Università La Fleche (Quebec, quindi francofoni) e si aggirano per il complesso alcune giocatrici di softball. Ci hanno detto che la struttura, per avere più mercato, introdurrà presto campi da calcio e da lacrosse. Il nostro amico Mike Piazza, che qui è cresciuto, non sembra tanto contento all’idea. Ma le cose cambiano e non ha senso far finta di niente.
Ne parlo con lui mentre raggiungiamo a bordo della sua auto il centro di Vero Beach. Che è lontano qualche miglio dal Village. Che è un Paradiso del Baseball dal quale è praticamente impossibile muoversi senza un’auto.

Dicevo nella premessa che non so bene che obbiettivo ho con questi articoli. Di certo, non quello di raccontare i progressi tecnici degli azzurri. Per quello, c’è il sito della FIBS. Qui andremo molto più dietro delle quinte. Spero farete buon viaggio con me.

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