In immersione a Zanzibar

Kenya, Tanzania e Zanzibar 2013-2014, VIAGGI

Per parafrasare un noto allenatore di baseball italiano, il difficile a Zanzibar non è fare le immersioni, è arrivare al posto dove ci si deve immergere.
Noi abbiamo appuntamento alle 7.30 davanti al Waikiki, dove l’autista della One Ocean Diving si presenta puntualissimo, ma non lasciamo la sede del centro immersioni prima delle 8.30. La bassa marea ci costringe a fare un tratto in bus piuttosto lungo e, comunque, raggiungere la barchetta che ci porta alla barca più grande, dalla quale ci immergeremo, richiede l’attraversamento di una zona dove l’acqua si è ritirata e, in compenso, emergono coralli quanto meno taglienti. Una ragazza si ferisce a un piede; ma dev’essere lei sfigata, perchè più tardi lascia il dito tra la nostra barca e quella di un altro diving che si era avvicinato.

La dive master Julie
La dive master Julie

Verso le 10 siamo pronti per andare in acqua. La nostra dive master è una francese di nome Julie e dall’aspetto intrigante, che parla un Inglese accettabile ed è fidanzata con il secondo dive master (Sebastien detto Seb), un altro francese con la faccia da francese e il fisico smilzo. I nostri compagni di immersione sono 2 Inglesi: lui è ansioso, lei addirittura ha la certificazione per rescue diver, chi si occupa dei salvataggi. Faccio lo spiritoso: “Con te e Julie, siamo tutti tranquilli”.
One Ocean si presenta come centro d’immersioni a cinque stelle e, in effetti, il servizio lo dimostra. Lasciate in soffitta le velleità cameratesche e il nonnismo latente, che a volte emergono nei diving italiani, o gestiti da italiani sul Mar Rosso, lo staff vi coccola dall’inizio alla fine: preparano l’attrezzatura, vi aiutano a entrare in acqua e vi aiutano a uscire.

Lo stranissimo frog fish
Lo stranissimo frog fish

Siamo a Mnemba, un atollo di quelli da cartolina. L’isoletta è apparentemente deserta, in verità ospita un resort da super ricchi che costa tipo 3.000 dollari a notte.
Il posto è perfetto, sia per le immersioni che per lo snorkeling e quindi non mancano le barche ancorate. Si parte da 5 metri di profondità, su un banco di sabbia. Chiunque potrebbe immergersi, anche perché l’acqua è cristallina in superficie.
Scendendo a Kichawi, troviamo però un po’ d’acqua torbida (blanche, dice Julie a Seb nel loro personale briefing in Francese). Questo non impedisce di notare la considerevole presenza di anemoni (con tanto di pesce pagliaccio nemo) e anche un paio di murene. Poi  c’è tutta la vita classica della barriera corallina, che di suo è piuttosto colorata.
Dopo un’oretta di superficie, ci immergiamo a Wattaboni. Qui è davvero pieno di vita, anche un po’ strana. Incrociamo un pesce pietra e poi addirittura quello che Julie chiama frog fish e di cui non sospettavo l’esistenza. Stando a Wikipedia, si tratta di un pesce della famiglia Antennariidae. La mia sommaria ricerca non mi ha portato a trovare un nome in Italiano della specie, il che potrebbe essere giustificato dal fatto che l’unico mare temperato al mondo dove il frog fish non vive è il Mediterraneo. Julie comunque è esaltata dall’incontro.
L’immersione prosegue verso Aquarium (“Siti di immersione chiamati così, ci sono in tutti i mari” riconosce Julie “Ma questo è davvero speciale”).  E’ speciale anche la corrente, per fortuna a favore, che ci porta via da Aquarium in un attimo. Ma il tempo basta per familiarizzare con una tartaruga verde (chelonia mydas), la specie più in pericolo tra le tartarughe marine. In Italia se ne trovano pochissimi esemplari nel golfo di Manfredonia. Questa si stava tranquillamente riposando sul fondo, poi sono arrivato io a darle noia.
Come è noto, la tartaruga di mare non è un pesce, bensì  un rettile, come tutte le tartarughe. Ha sangue freddo (e per questo ama le acque calde) e respira ossigeno dall’aria tramite i polmoni. E’ però capace di lunghissime apnee. Incontrare una tartaruga è una bella esperienza, perché nuota relativamente lenta (benchè adattate, le zampe non sono pinne) e la si può osservare con calma. Non va però mai afferrata dal carapace, perché questo la manda in panico e le crea una tachicardia che può addirittura essere fatale.

La tartaruga caretta caretta
La tartaruga caretta caretta

Il ritorno al Waikiki è quasi laborioso come l’arrivo al diving. A tal punto che un italiano (arrogante alla lei non sa chi sono io) e un francese (così francese da dire chissà cosa avrai da fare) litigano perché il francese fa ritardare la partenza per lavare la muta.
Il giorno dopo replichiamo tutto, tranne i compagni d’immersione. Con noi scende in acqua un ragazzo svedese di nome Eric, che è a Zanzibar con padre, madre, fidanzata, amica della fidanzata: un’allegra combriccola. Saputo da dove veniamo, il padre confessa di essere stato tifoso del Parma calcio per via della presenza di Thomas Brolìn, pronunciato proprio con l’accento sulla i.
Julie parte frizzante, poi si rabbuia perché si sono scordati il mio gav (il giubbotto che si gonfia e si sgonfia per galleggiare meglio) e mette il broncio quando Seb le chiede qualcosa che lei non capisce. Per fortuna, in acqua non deve parlare. Però interpreta bene il ruolo della bella ragazza francese col broncio, che va avanti da sola e non si guarda neanche indietro. Così fungo da dive master io, stanando un paio di tartarughe. Questa volta, sono della specie caretta caretta, le più comuni anche nel Mediterraneo. In Italia è una specie minacciata, ma ci sono comunque diverse spiagge su cui nidifica, tipo quella Dei Conigli a Lampedusa.
A peggiorare l’umore già compromesso di Julie, ci si mette anche Eric. Il giovanotto finisce l’aria in 32 minuti e questo comporta una lunga (12 minuti; la signorina non è evidentemente abituata ad aspettare…) attesa in superficie prima di essere recuperati.
La seconda immersione dura qualcosa come 52 minuti, visto che non c’è per niente corrente. Non si vede nulla di particolare (a Grouper’s Wall, le cernie sono poche; si vede qualche trigone, ma tutti restano ben nascosti nella tane), ma i colori della barriera e i tanti anemoni rendono il tutto molto piacevole. Sono immersioni ricreative, tecnicamente, e io prendo la definizione alla lettera e mi rilasso. Certo, manca l’adrenalina dell’incontro con lo squalo, ma immergendosi con partenza da un banco di sabbia, è relativamente improbabile.
Per uscire dall’acqua, non c’è scaletta per salire sulla barca piccola. Così ci si dà una spinta con le game e il barcaiolo Yusuf fa il resto, issandoci come se fossimo un marlin appena pescato. Hakuna Matata, dice Yusuf, che in Swahili significa Tutto a posto.

E’ il 31 dicembre e mi lancio rivolgendo a Julie e Seb un Bon Année mes amis di congedo che strappa un sorriso.