Interrompo il resoconto del mio viaggio invernale perchè, dopo il giorno della memoria e la visione dei film The Eichmann Show e Hannah Arendt, ho una certa urgenza di scrivere sul razzismo. Anche alla luce di quanto successo ultimamente nel campionato di calcio
Adolf Eichmann aveva 32 anni quando nel 1938 costituì a Vienna l’ufficio centrale per l’emigrazione ebraica, un’emanazione del Sicherheitsdienst (servizio di sicurezza). L’Austria era stata annessa (Anschluss) alla Germania nazista, che riteneva necessario far emigrare a forza 50.000 ebrei.
Eichmann svolse il compito molto bene, fu promosso ufficiale delle Schutz Staffeln (meglio note come SS; si trattava di un gruppo paramilitare del partito Nazional Socialista fondato originariamente come guardia personale di Adolf Hitler) e divenne ufficialmente l’esperto degli spostamenti di massa degli ebrei.
Era entrato nelle SS abbastanza per caso nel 1933. Aveva infatti incontrato a una manifestazione del Partito Nazional Socialista Ernst Kaltenbrunner, un amico di famiglia che allora era un semplice consulente legale ma era destinato a diventare Direttore dell’ufficio centrale del Sicherheitsdienst e verrà giustiziato dopo il Processo di Norimberga del 1946. Questi lo aveva assunto alle sue dirette dipendenze.
Dal 1933 al 1938 Eichmann aveva davvero imparato molto sull’ebraismo. Aveva iniziato leggendo Lo Stato ebraico di Theodor Herzl (fondatore del sionismo, che dal 1897 chiedeva la costituzione in Palestina di uno Stato ebraico) e visitato in incognito diversi kibbutz.
Il film The Eichmann show di Paul Andrew Williams è stato trasmesso dalla BBC il 20 gennaio del 2015 ed è stato distribuito in Italia un anno dopo in occasione della giornata della memoria. Si tratta della vicenda dietro le quinte del processo ad Eichmann che si tenne in Israele nel 1961. Il produttore Milton Fruchtman aveva deciso di riprendere il processo e trasmetterlo in televisione in tutto il mondo. Come regista aveva ingaggiato Leo Hurwitz, che si era fatto un certo nome come documentarista, ma era successivamente finito nella lista nera del Senatore Joseph Mac Carthy in quanto ritenuto comunista, quindi nemico dei valori alla base della vita americana.
Eichmann era stato arrestato dal Mossad (i servizi segreti israeliani) nel 1960 a Buenos Aires. Viveva lì da 10 anni sotto il nome di Riccardo Klement.
Eichmann non era noto come i vari Martin Bormann, Whilhelm Frick, Hermann Goering (condannati a morte a Norimberga; Goering, è noto, si suicidò prima di essere impiccato).
Nemmeno come Josef Mengele, il medico soprannominato Angelo della Morte per gli
esperimenti fatti sui detenuti di Auschwitz. Sia Mengele (sulla cui testa gravava una taglia di 3.000.000 di dollari) che Eichmann riuscirono a far perdere le proprie tracce dopo la resa tedesca grazie a documenti italiani falsi.
Nel 1948 il Vicario di Bressanone Alois Pompanin (stando a Wikipedia: noto collaborazionista dei nazi-fascisti) fornì a Eichmann i documenti falsi (rilasciati dal Comune di Termeno, oggi in provincia di Bolzano) che gli permisero di ottenere un passaporto della Croce Rossa e imbarcarsi (probabilmente da Genova) per il Sud America.
Mentre Mengele visse un’intera vita in Brasile e morì d’infarto mentre nuotava in mare a 67 anni nel 1979 (per la verità, solo nel 1985 si scoprì che il corpo di Wolfgang Gerhard era in realtà quello di Mengele), Eichmann venne scoperto a causa di un’imprudenza del figlio. Invaghito di una ragazza tedesca, le rivelò la sua identità, esprimendo rammarico per il mancato completamento della soluzione finale. Sfortunatamente per gli Eichmann, la donna era figlia di Lothar Hermann, un ebreo di origine ceca, che segnalò il fatto alle autorità tedesche.
Ho approfondito per la prima volta la figura storica di Adolf Eichmann una decina d’anni fa, quando lessi il libro La banalità del male di Hannah Arendt. Nata a Linden (oggi una frazione di Hannover) in Germania, coetanea di Eichmann, la Arendt era ebrea. Mentre Eichmann iniziava la sua ascesa nelle SS (1937), Hannah veniva privata della cittadinanza. Rimarrà apolide fino al 1951, quando otterrà il diritto alla naturalizzazione come statunitense. Dopo aver frequentato i corsi di Martin Heidegger a Marburgo ed esserne stata l’amante (Heidegger era di 17 anni più anziano), Arendt si era laureata nel 1929 a Heidelberg con Karl Jaspers (altra figura fondamentale della sua vita) tramite una Tesi sul concetto d’amore in Agostino che venne pubblicata.
Divenuto Rettore dell’Università Albert Ludwig di Friburgo, Heidegger si iscriverà nel 1933 al partito Nazional Socialista. Non avrebbe potuto fare altrimenti, se non rifiutando l’incarico, ma l’ipotesi di una sua vicinanza al nazismo non è mai stata comunque confutata. E’ un dettaglio da tenere a mente.
All’epoca del processo Eichmann la Arendt era una rispettata docente universitaria negli Stati Uniti. Aveva anche pubblicato il celebrato saggio Le origini del totalitarismo (“uno dei libri più importanti del secolo”). Si propose al New Yorker come corrispondente dal processo e da quel reportage nasce il libro La banalità del male.
Si tratta di una lettura che io ritengo fondamentale, soprattutto per l’originalità dei contenuti. La Arendt non si fa scrupolo di esprimere i suoi dubbi sull’azione del Mossad che portò all’arresto di Eichmann a Buenos Aires. Sottolinea che l’azione era stata compiuta da Israele in un altro Stato sovrano e che forse gli Stati Uniti non si mostrerebbero così permissivi se i servizi segreti di un paese africano penetrassero nel loro territorio per assicurare alla giustizia qualche dichiarato schiavista.
Ammiratrice dichiarata di Kant e dell’Illuminismo, Arendt predica il selbst denken, ovvero il pensare con la propria testa: “La corte deve giudicare Eichmann come uomo, non processare la storia”.
Quando Arendt pubblicò i suoi articoli sul New Yorker, la sua posizione venne ritenuta di difesa di Eichmann perché il concetto di banalità del male non venne capito correttamente. Si trovò così costretta a spiegare alla sua Università: “Ho chiamato banalità del male un fenomeno che è tipico del nazismo: è un movimento formato da persone che negano sè stesse, alla fine dimostrando che il male non esiste perché lo commettono dei NESSUNO”.
Il memorabile discorso fatto dalla Arendt ai suoi studenti è reso in modo molto emozionante dall’attrice Barbara Sukowa nel film che Margarethe Von Trotta ha dedicato alla filosofa morta nel 1975. Si tratta di un film parlato per metà in Inglese e per metà in Tedesco. La Sukowa nel discorso parla un Inglese con forte accento tedesco e la versione in Italiano, che per comodità riporto sotto, diventa edulcorata dalla dizione accademica della doppiatrice, quindi meno efficace.
La Arendt (definita dai suoi colleghi professori “tutta arroganza, niente sentimenti”) venne osteggiata sia prima che dopo il suo lavoro da inviata al processo Eichmann. Prima dalla redazione del New Yorker, che sosteneva: “Questi filosofi non rispettano le scadenze”. Dopo da molti lettori, che la accusavano di simpatie naziste. Qualcuno le scrisse: “La tua foto non merita nemmeno la dignità di essere bruciata”.
Venne anche attaccata come anti semita: “Non ho mai attaccato gli ebrei” dirà “Mi sono solo chiesta se alcuni dei loro leader non si sarebbero potuti comportare in modo diverso”.
Il suo ex marito Guenther Anders le disse: “Sei andata troppo in là”.
Ma Arendt venne anche attaccata dagli ex allievi di Heidegger, che la accusarono di aver tradito i principi del maestro.
Anche se resta formidabile e universale il concetto che lei esprime dicendo: “Pensare ci dà la possibilità di distinguere il bene dal male, il bello dal brutto”, è probabile che in questa fase della sua vita Hannah Arendt si sia resa conto dei rischi che comportano il selbst denken e il tentativo di sfuggire all’omologazione.
I critici di Arendt furono probabilmente ingannati dal fatto che la sua definizione di Eichmann era quella di un uomo normale, non di un mostro. Eichmann ist kein Mefisto, dice Sukowa/Arendt nel film della Von Trotta. Non è il diavolo.
Ma lasciamo spiegare meglio ad Hannah Arendt: “Non ho difeso Eichmann, ma ho cercato di riconciliare la sua mediocrità con l’enormità di quel che ha fatto. Cercare di capire non è giustificare…rinunciando a essere una persona Eichmann ha mostrato la sua incapacità di pensare. A quel punto, non era più in grado di dare un giudizio morale”.
La Arendt non fa mistero di considerare Eichmann un omuncolo di poco valore. Nel film The Eichmann Show l’attore Martin Freeman (lo abbiamo visto nella prima serie di telefilm Fargo; interpreta Fruchtmann) commenta le risposte di Eichmann all’interrogatorio così: “Sarà tutto, ma quest’uomo non è uno scemo”.
Il montaggio del film alterna i commenti degli attori alle immagini d’epoca in maniera magistrale ed emozionante. E’ difficile non restare colpiti quando scorrono le immagini della scoperta delle fosse comuni ad Auschwitz. Ma Eichmann, al quale la Procura volle mostrare in aula le immagini, non si commuove e nemmeno scompone. Sostiene alla noia di non aver preso nessuna decisione e di aver solo eseguito gli ordini. Commenta l’attore Anthony La Paglia, che interpreta Herwitz: “Ma come fa, a restare lì?”.
C’è però un momento topico. Quando si parla della marcia della morte (il trasferimento di decine di migliaia di prigionieri dai campi polacchi e ungheresi a quelli più a ovest), il Procuratore Gideon Hausner incalza Eichmann e alla fine l’ex SS ammette di non aver deciso, ma di aver proposto la marcia: “Questo non posso negarlo”.
Eichmann è considerato l’ideatore della logistica della soluzione finale. Wikipedia gli attribuisce questa terribile dichiarazione: “All’occorrenza salterò nella fossa ridendo perché la consapevolezza di avere cinque milioni di ebrei sulla coscienza mi dà un senso di grande soddisfazione. Mi dà molta soddisfazione e molto piacere”. Testimoni al processo (le trascrizioni si trovano sul web) hanno confermato che il suo antisemitismo era realtà e che Eichmann lo aveva mostrato con azioni concrete. Avraham Gordon raccontò che assieme alla sua guardia del corpo Slawik aveva ucciso di botte un ragazzino colpevole di aver rubato ciliegie da un albero del giardino della sua casa di Budapest.
Una volta condannato a more, Eichmann chiese comunque la grazia al Presidente israeliano Yitshak Ben-Zvi tramite una lettera che Israele ha reso nota solo in questi giorni: “Bisogna distinguere i responsabili dalle persone che come me sono state semplici strumenti nelle loro mani” scriveva 2 giorni prima di essere impiccato “Io non ero un responsabile e non mi sento quindi colpevole (…) Pertanto non ritengo giusto il giudizio della corte e vi chiedo, signor Presidente, di esercitare il vostro diritto a concedermi la grazia, così che la condanna a morte non venga eseguita”.
Scrisse anche la moglie di Eichmann, che chiese la grazia per “il padre di 4 figli”.
A oggi Adolf Eichmann risulta l’unico civile giustiziato in Israele. Solo nel 2011 è stata rivelata l’identità del suo boia attraverso il documentario israeliano The hangman di Netalia Brown.
Il film The Eichmann show è naturalmente un’elegia della grande forza positiva che può uscire dai media, se usati in maniera positiva. Ad iniziare dalla battaglia di libertà condotta per ottenere il permesso a filmare e dalla forza che produttore e regista hanno avuto opponendosi alla logica dell’audience, in quei giorni negli Stati Uniti voleva tutti concentrati sul volo nello spazio di Gagarin e sul tentativo di invasione di Cuba, che avrebbe potuto cancellare il programma. Mi concentro però sulla sequenza finale. Il film si chiude con questo concetto (cito a memoria): “Il problema inizia quando ci sentiamo superiori a un altro essere umano, lo discriminiamo per il colore della sua pelle o perché ha il naso grosso e storto”.
Non è diverso da quello che scrive Primo Levi nell’introduzione a Se questo è un uomo: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager…”.
E’ ricordando queste parole che provo brividi di disgusto quando sento un calciatore apostrofare un suo collega come “Zingaro di merda” o “Sporco negro”. Ma ancora di più quando sento che c’è chi lo difende con argomenti tipo: “Io in campo ho detto di peggio” o “E’ ovvio che per offendere qualcuno si attaccano le debolezze”.
Proprio questa è la cosa terribile. Non il momento di rabbia (più o meno giustificata) che ci fa dire qualcosa di cui poi ci pentiremo. Ma il fatto che la nostra mente possa concepire che si può offendere qualcuno ricordandogli da dove viene o che colore della pelle ha.