E con questo, concludo il resoconto del viaggio in Messico e volto pagina. Lo so, il sito è rimasto fermo per un mese esatto. Ma non l’ho fatto volutamente: mi ero portato anche l’agenda degli appunti presi in viaggio, per concludere il tutto durante il World Baseball Classic. Ma in quel periodo ho scritto così tanto, che non ho avuto il coraggio di aprire un altro fronte.
L’ultima puntata del viaggio in Messico è dedicata ad alcune delle letture che hanno caratterizzato il mese.
L’ultimo giorno a Città del Messico ho visto una mendicante che chiedeva l’elemosina cadere dalla sedia a rotelle. Non si muoveva più, però teneva stretto il bicchiere con poche monete che era quanto aveva raccolto. Ho guardato per un po’, perchè temevo fosse morta. Ma alla fine ho tirato dritto.
Avrà avuto 100 anni.
“Ai morti non si chiede permesso. O almeno, non ai morti fottuti. Si fa quel che va fatto. Si trova la maniera giusta e si procede senza indugi, fregandosene di tutto il resto. O magari sì: per sentire la loro paura, perchè il timore degli altri ci nutre e bene…”
Lo scrive Yuri Herrera ne La ballate del Re di Denari, un romanzo breve (o racconto lungo, fate voi) che parla del ruolo dell’artista in una società comandata dal crimine organizzato.
Lupo è un Mariachi, che il Re di Denari o il Signore (un narcotrafficante) assume per comporre canzoni e intrattenere i suoi ospiti.
“La storia si racconta da sola, ma occorre infonderle un’anima. Uno afferra un paio di parole e le altre cominciano a girarci attorno e così viene fuori. Perchè se si trattasse soltanto di spettegolare, non varrebbe la pena di farci una canzone. Il corrido non solo è veritiero, è bello e rende giustizia. Ecco perchè risulta così adatto a onorare il Signore”.
Guardate come si conclude il racconto: “Una delle cose che aveva imparato era che bisogna stare dove ti dicono di stare, finchè non si sente che quello non è più il tuo posto…”.
La prosa di Yuri Herrera (classe 1970; nella prima puntata parlo anche del suo secondo romanzo, Segnali che precederanno la fine del mondo) è scintillante. E’ una lettura che dà veramente molto.
Fai dei bei sogni di Massimo Gramellini è certamente un libro di cui avete sentito parlare, visto che il suo autore gode di una certa fama televisiva e il romanzo ha venduto oltre un milione di copie.
“Cosa vuoi che sia, morire” scrive Gramellini citando Victor Hugo “Quello che è spaventoso è non vivere”.
E’ un libro in cui l’autore si mette a nudo, forse anche in maniera eccessiva. Perchè a tratti, più che di un romanzo, avevo l’impressione che si trattasse di uno di quei diari che gli psicologi ti fanno tenere quando sei in analisi. Ma certo, è una lettura che commuove.
Io sono sempre poco ben disposto a leggere i best seller, dopo che sono diventati best seller. E infatti, il mio lato più cinico mi porta a chiedermi: ma sarebbe mai riuscito a pubblicare un libro del genere, Gramellini, se non fosse già stato conosciuto di suo?
Ma probabilmente, la mia è tutta invidia.
Abbastanza per caso, mi è capitato in mano un articolo del Washington Post che è una vera e propria lezione di giornalismo. Lo ha scritto Patrick Pexton, che era fino a poche settimane fa l’ombudsman del giornale, ovvero il rappresentante dei lettori, il membro dello staff che deve dare voce alle rimostranze del lettori.
Pexton ha parlato, in un articolo del 21 dicembre, del caso di Sally Jenkins, la giornalista sportiva del Post che ha preso le difese di Lance Armostrong contro ogni evidenza.
Si chiede Pexton: “La Jenkins ha violato le regole etiche del Post?”.
E la risposta è no: la Jenkins ha semplicemente (e clamorosamente) sbagliato. E qui, la vicenda mi coinvolge molto. Alcuni lettori sostengono che la Jenkins, che curò una biografia di Armstrong, non avrebbe dovuto scrivere del ciclista. Anche perchè fu lei stessa a dire: “Non parlatemi male di Lance, perchè semplicemente non vi ascolterò”.
Ma, ci dice Pexton: “Rajiv Chandrasekaran ha scritto articoli per il Post sulle guerre in Iraq e Afghanistan e ci ha scritto libri. Questo significa che se scrive editoriali su quei paesi oggi, non dovrebbe perchè rischia di fare pubblicità ai suoi libri?”.
“Un giornalista” sono le parole di Pexton “Dovrebbe sempre rivelare ai suoi lettori se ha potenziali conflitti di interesse”.
Per esempio, se io scrivo di baseball, è giusto che si sappia che sono l’addetto stampa della FIBS. Il che mi fa anche dire che se un presidente o vicepresidente di società è anche un giornalista, forse dovrebbe rendere nota questa sua posizione e stare attento a non usare nei suoi articoli informazioni che ha assunto svolgendo il suo ruolo di dirigente.
Ma non divaghiamo…
La Jenkins non ha scritto in favore di Armstrong perchè è sua amica (“Non gli condono quel che ha fatto, ma come amica lo perdono”), ma perchè sul doping lei ha un’opinione diversa da quella della maggioranza: “Non vedo il doping come una questione di bianco o nero. La vedo come una vicenda molto complessa, dal punto di vista morale, giuridico e filosofico. Molta gente vorrebbe che non la pensassi così, questa è la ragione della loro rabbia nei miei confronti”.
Pensiero inquietante: per giudicare le idee di qualcuno, abbiamo bisogno di condannarlo per violazioni etiche? E la caccia alle streghe, non era fondata su questo tipo di principio?
Io non la penso come la Jenkins (anzi, tutto il contrario). Ma come giornalista dico che ha fatto il suo mestiere correttamente.
E invito a leggere il magistrale pezzo di Pexton (in Inglese).
Chiudo con The Broom of the System di David Foster Wallace. Si tratta di un romanzo incredibile, rivelatore di un talento immenso e di una cultura letteraria sconfinata.
Devo dire che, in qualche modo, mi imbarazza che Wallace sia stato capace di scrivere qualcosa di simile a 24 anni, nel 1987.
Di un libro così complesso, è difficile rendere conto della trama in poche righe. Quindi, le mie note potrebbero apparire disordinate.
Dal punto di vista linguistico, il libro è strabiliante e per questo andrebbe letto in lingua originale, come Wallace lo ha pensato. Si intersecano diverse linee temporali, ma la vicenda principale è la scomparsa della bisnonna di Lenore, la protagonista.
A capire che si tratta di meta fiction, io ci ho messo almeno due terzi del libro. Non so se sono io poco svelto o se il romanzo è concepito così (in fondo, Wallace ha sempre cercato di spiazzare i lettori…). Ma solo verso il finale, è evidente che il romanzo racconta di qualcuno (Rick Vigorous, uno dei personaggi e proprietario di una casa editrice) che scrive un romanzo e che, a un certo punto, confonde realtà e fantasia. O forse, vorrebbe riscrivere la realtà come fa più comodo a lui. Non lo sapremo mai.
Dalla premessa (flashback, diremmo di un film) di Lenore che visita la sorella al College al delirio finale del ritrovamento degli scomparsi si incontrano personaggi sensazionali e che tratteggiano un’America fuori di testa. Dall’uccello Vlad l’Impalatore, che diventa la star di una tv via cavo di predicatori (Christian Broadcasting Network) con i suoi deliri religiosi (e la capacità di imparare a dire che: “Le donazioni sono deducibili dalle tasse”…,) a Norman Bombardini, che si definisce: “un obeso grottesco, un maiale avido”. Lo scopo di Bombardini è occupare tutto lo spazio vitale: “Questa sera mangerò, tantissimo e da solo. Perchè sono enormemente solo”.
E in questo modo Wallace ci dà una pennellata che descrive uno dei più grossi problemi della società americana. Come aveva cercato anche di fare Raymond Carver in un suo celebre racconto (divenuto una scena di America Oggi di Altman). Ma in un modo che mi ricorda più la comicità folle dei Monthy Pyton.
Uno degli ultimi capitoli inizia così: “Se uno guarda molto vicino la tazza del cesso, vedrà che l’acqua all’interno in effetti non è ferma…ma questo balza all’occhio solo del devoto pellegrino del mattino”.
Ci estraniamo dalla realtà, insomma. E Rick lo fa così tanto da preferire alla realtà il pensiero che chi lo ha abbandonato sia in effetti sparito.
Ma: “Ma non sono spariti, sono andati all’aeroporto”.
E con questo, è tutto.
Mi fermo qui, Messico
Addio ti dico, ma non me ne vado
Me ne vado, ma non posso
dirti addio
Pablo Neruda