Come è mia abitudine, concludo il resoconto su un viaggio parlando delle letture che ho fatto in quel periodo. Di Tarzan e dei Leoni di Tsavo ho detto, mi concentro su libri che non parlano di animali e che mi hanno portato in territori nei quali fino qui non mi ero quasi mai avventurato.
La seconda guerra mondiale è stata ben presente nella mia infanzia, a cominciare da un inquietante cassone: conteneva la dotazione del Tenente Riccardo Schiroli, restituita alla famiglia dopo che era morto in Russia, decapitato dai Partigiani. Era a casa mia perché mia nonna Bice non aveva mai accettato la morte del suo figlio prediletto e vaneggiava che Riccardo avesse disertato e si fosse sposato con una donna russa.
Riccardo era mio zio. Essendo morto 20 anni prima che io nascessi, ne ho solo sentito parlare. Ne ho anche letto, visto che con me condivideva la passione per la scrittura. Il suo racconto L’uomo radio era fortemente influenzato dal futurismo e dalla retorica di D’Annunzio. Riccardo era, insomma, un fascista.
Io della seconda guerra mondiale ho sempre capito poco, a scuola. Nella prima, almeno, le cose erano chiare. L’Italia stava con Francia e Inghilterra, aveva rischiato il tracollo e poi aveva vinto.
Il mio nonno materno Angelo era uno dei ragazzi del 1899, gli ultimi arruolati. Mi raccontava sempre che gli avevano dato un cavallo e che lo trovava “più grosso” di lui. Angelo parlava quasi esclusivamente in dialetto, quindi non è che io capissi benissimo. Però probabilmente quello che gli avevano dato era un mulo, non un cavallo.
Della seconda guerra mondiale c’era una cosa che mi sfuggiva: prima eravamo con i tedeschi, poi i tedeschi non andavano più bene e c’erano in Italia gli alleati, che però erano alleati tra di loro e non con noi. Mi chiedevo perché a Cavi di Lavagna in vacanza un tedesco ubriaco avesse mormorato italienisches schwein (porco italiano) nel corso di una lite. All’esame di terza media, mi ero rifiutato di fare una ricerca sulla seconda guerra mondiale e avevo portato quella che oggi si chiamerebbe tesina sulla prima, suscitando il fastidio della professoressa.
In quinta superiore avevo fatto inorridire la professoressa d’Italiano con la seguente domanda: “E’ corretto dire che l’Italia ha tradito?”. Mi deve ancora rispondere.
Cesare Pavese scrive ne La casa sulla collina (pubblicato nel 1949): “E’ accaduto qualcosa di enorme”. Il romanzo è ambientato nell’estate del 1943 e il “qualcosa di enorme” è la caduta di Mussolini. Scrive ancora Pavese: “Tutto pareva rinnovato, fresco, bello come il cielo dopo un temporale. Sapevo bene che non sarebbe durata…”.
Non ho mai avuto una grande opinione di Cesare Pavese, da studente. Di questo romanzo confesso di aver sentito parlare per la prima volta leggendo Due anni senza gloria di Lodovico Terzi, un poco (dal grande pubblico) conosciuto autore che le pagine culturali del Corriere della Sera definiscono: “Una magnifica sorpresa della letteratura italiana recente”. Terzi, che è nato a Parma, compirà quest’anno 88 anni. Nel mondo della letteratura è noto per il suo lavoro sui classici. Ma Due anni senza gloria è il suo racconto del periodo che va dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945.
Dichiara Terzi al Corriere: “I Partigiani hanno scelto, io no”.
Ma andiamo con ordine. Perché a scuola della seconda guerra mondiale ho capito poco, ma poi ho provato a recuperare.
I miei genitori, all’epoca dei fatti, erano troppo giovani. Mia mamma l’8 settembre si avviava a compiere 10 anni e mio babbo ne aveva 4 di più. Qualcosa mi hanno raccontato, ma ho presto concluso che si trattava di racconti di fantasia: tipo bambini che giocavano sotto i bombardamenti o giovanotti che venivano reclutati dall’esercito del Terzo Reich in ritirata e sfuggivano ai tedeschi. Mia nonna all’epoca era sulla trentina, ma l’unico ricordo che sembrava avere era Amedeo Nazzari che (non ricordo in che contesto) la invitava a ballare.
Tenete conto del fatto che io sono cresciuto in un periodo (sono nato nel 1963) nel quale la Resistenza era raccontata come qualcosa di gioioso e inevitabile. Come se un popolo si fosse svegliato all’improvviso e, accortosi di non essere libero, avesse agito di conseguenza (un po’ come nella canzone Bella Ciao, insomma). Ne ho già parlato qui e non mi ripeterò. Ma questa versione non mi aveva mai convinto.
Tenete anche conto del fatto che io ho iniziato a fare il giornalista di cronaca nei primi anni ’90, quando era un attimo sentire politici esprimere ardite posizioni revisioniste del tipo che “Il Fascismo ha fatto anche cose buone” e definirsi neo fascisti, ignorando il fatto che la nostra Costituzione vieta espressamente di ricostituire il partito fascista.
Tenete infine conto del fatto che a noi tutti a scuola insegnano che:
1) Gli italiani quando emigravano non erano mica come quelli che vengono adesso in Italia
2) Che Mussolini era più buono di Hitler
3) Che noi avevamo le Colonie ma non li trattavamo mica male come gli Inglesi e i Francesi
4) Che noi avevamo le leggi razziali, ma lo abbiamo fatto perché Hitler ce lo chiedeva e, insomma, non vorrai mica paragonare quel che han fatto i tedeschi agli ebrei con quel che abbiamo fatto noi…
Indro Montanelli mi ha scritto nell’estate del 2000 che a suo tempo lui aveva aderito al Fascismo perché lo vedeva “Come una scorciatoia per bonificare la vita pubblica italiana e portare il nostro al livello degli altri Paesi europei”. Aggiunse: “Perché dovrei rimpiangere quel sogno, solo perché non si realizzò?”.
Montanelli, che come mio zio Riccardo si arruolò volontario, parla di “sogno”. Il Fascismo? Ma se ci ha distrutti, come Paese? Ebbene, quando aderì Indro ovviamente non sapeva quel che sarebbe successo.
E non lo sapeva nemmeno il Re d’Italia, Vittorio Emanuele Terzo, che il 7 maggio 1936 dichiarò che l’Italia aveva vinto la “Più grande guerra coloniale che la storia ricordi” e aggiunse: “Per il prestigio, la vita, la grandezza della Patria Fascista”.
In verità, l’invasione italiana dell’Abissinia fu un atto piuttosto vile. Un paese aderente alla Società delle Nazioni invase un altro Stato Membro con pretestuose motivazioni di sicurezza dell’Africa Orientale italiana. Tanto che la Società delle Nazioni sanzionò l’Italia.
A chi dice che Mussolini “qualcosa di buono ha fatto” (incluso un ex Premier ed ex Senatore, al momento decaduto da quest’ultima carica), voglio spiegare che, al limite, tutto quel buono era stato fatto prima del 1936. Perché il 28 maggio Mussolini dichiarò al quotidiano Inglese Daily Telegraph: “L’Italia fascista desidera la pace” (lasciando intendere di farci fare quel che volevamo in Abissinia, ovviamente; siamo stati o no alleati in guerra?) e poco dopo interverrà in Spagna per partecipare alla “lotta anti bolscevica”, con il risultato di aiutare Francisco Franco a diventare il Caudillo di Spagna e, non da meno, di creare i presupposti perché gli Italiani (ma Mussolini dirà che gli Italiani che combattevano per Franco non avevano nulla a che fare con lui; gli altri, era ovvio che fosse così) si ammazzasero tra di loro nella stessa guerra.
Il comune sostegno a Franco avvicinò Mussolini a Hitler in maniera pericolosissima. Il Duce, dopo aver mandato l’esercito al Brennero nel 1934, pronto a tutelare l’Austria nei confronti dell’eventuale aggressione del Terzo Reich, non interverrà quando Hitler proclamerà l’Anschluss nel 1938. Farà, anzi, rispondere da Galeazzo Ciano che non era per niente preoccupato.
Mussolini godeva inspiegabilmente di una certa compiacenza inglese. A Monaco , durante la conferenza tra i Capi di Governo di Regno Unito, Francia, Germania e Italia per discutere delle rivendicazioni tedesche sulla Cecoslovacchia (dalla quale Mussolini uscirà trionfatore), gli emissari di Sua Maestà sarebbero stati pronti a concedere il controllo completo del Mediterraneo all’ Italia, ma non potevano decidere anche per la Francia. Il Mediterraneo restò com’era e Mussolini userà questo e le sanzioni della Società delle Nazioni, quando dovrà motivare la sua entrata in guerra.
Nel 1938 Mussolini inizia proprio a dare i numeri. A luglio prende posizione sulla questione della razza e a settembre istituisce il Consiglio Superiore per Demografia e Razza. Il Partito Fascista scrive un decalogo.
Non fosse una vicenda così tragica, a leggerlo ci sarebbe da ridere. Il decalogo contiene infatti una serie di cazzate memorabili. Riporto i punti (mantenendo la cronologia del decalogo) più memorabili:
1- Le razze umane esistono (fin dai tempi di Darwin, era chiaro che non era così); 4- La popolazione italiana è in maggioranza ariana (ma quando mai? E i discendenti degli Arabi e dei Normanni in Sicilia o degli Ostrogoti in Romagna o dei Galli in Piemonte?); 6) Esiste una razza italiana (durante il Risorgimento, a cui Mussolini millantava di ispirarsi, era stato negato); 7- E’ tempo che gli Italiani si proclamino razzisti (anche se il termine non aveva allora l’accezione spregevole che ha oggi, reagisco sempre con un: che cosa???); 9- Gli Ebrei non sono di razza italiana (ma a nessuno venne in mente di ribattere che, da San Paolo in avanti, erano comunque Italiani?); 10- I caratteri fisici e psicologici degli italiani non devono essere alterati.
Quest’ultimo punto del decalogo fu il presupposto a introdurre il concetto di razzismo nel matrimonio, impedendo matrimoni tra razza italiana e altre razze.
Penso che basterebbe questo decalogo per squalificare senza riserve il Fascismo. Ma ovviamente c’è di più.
Dopo il celeberrimo Patto d’Acciaio del maggio del 1939, l’Italia entra in guerra a fianco della Germania nel giugno del 1940. Mussolini dichiara alla folla (la propaganda fascista parla di milioni di persone, ma insomma…le immagini le abbiamo viste tutti, ma i montaggi si potevano fare anche allora; il consenso verso il Regime, dopo il Patto, era certamente calato. Se guardate, mai viene inquadrata la piazza dalle spalle di Mussolini…in compenso, si indugia su altre piazze, dove la gente ascoltava il Duce via radio) che la dichiarazione di guerra va a Inghilterra e Francia: “Democrazie plutocratiche e reazionarie, che hanno ostacolato la marcia dell’Italia”.
A quel tempo il Duce è ben consapevole della impreparazione dell’Italia nei confronti di una guerra. Al di là del fatto che glielo dica lo Stato Maggiore, lo dovrebbe sapere perché è il suo Governo che non ha investito (forse è qui, quel buono di cui si diceva…) sugli armamenti e sull’addestramento ma sulla ricostruzione industriale. Infatti dice: “Ho bisogno di alcune migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace”.
Passano poco meno di 3 anni e l’Italia è in ginocchio. Nel luglio del 1943 il Re chiede a Mussolini di “sganciare” l’Italia dalla Germania. In luglio Mussolini incontra Hitler a Feltre. Travolto da 3 ore di monologo del Fuehrer (che era in effetti ancora più fuori di lui…), il Duce non dice nulla della richiesta del Re e delle difficoltà dell’Italia.
Con la Sicilia già invasa dagli anglo americani e Roma sotto i bombardamenti, il Gran Consiglio sfiducia Mussolini il 25 luglio e il Re ne “accetta le dimissioni”, facendolo subito dopo arrestare.
Badoglio, a capo del Governo, dice che “La guerra continua”. I tedeschi si fidano così tanto che portano da 6 a 14 divisioni il contingente sul territorio italiano. A loro volta, i Savoia sono così tranquilli che scappano a Brindisi.
L’8 settembre l’Italia firma l’Armistizio. Il 12 settembre i tedeschi liberano Mussolini, che proclama la Repubblica Sociale, con sede del Governo a Salò e il 13 ottobre l’Italia (intesa come Regno d’Italia) dichiara guerra alla Germania. L’11 gennaio 1944 Mussolini fa fucilare Galeazzo Ciano e gli altri traditori del 25 luglio 1943.
Di fatto, a quel punto l’Italia è divisa in 2: l’Italia del Nord, in mano ai tedeschi, e l’Italia del centro sud, in mano agli anglo americani. Viene creata la famosa Gotenstellung (la linea gotica) dall’attuale zona di Massa Carrara fino a Pesaro: un fronte di oltre 300 chilometri.
Torniamo a Lodovico Terzi. Il suo Due anni senza gloria parte da qui.
Terzi veniva da una famiglia molto vicina al Regime: il padre (morto 2 giorni prima della caduta di Mussolini) era Segretario Nazionale degli Ingegneri, suo zio Osvaldo Sebastiani era stato Segretario particolare del Duce (morirà ucciso dai Partigiani). Il giovane Lodovico entra all’Accademia militare, più per caso che per altro non diserta per unirsi alla Resistenza e, insomma, finisce la guerra dalla parte sbagliata.
Poco prima di morire (gennaio 2012) Carlo Fruttero dice che questo libro è “un capolavoro”. In effetti, è una lettura estremamente interessante, perché presenta un punto di vista di normalità, poco letterario. E soprattutto, è il punto di vista di chi giudica con gli occhi di allora e “appartiene all’esercito” che “ti tiene al riparo dalle passioni”. Durante la Resistenza, insomma, non c’erano solo gli eroi o quelli che avevano le idee chiare. Ma anche le persone normali, capaci solo di scelte insignificanti per il destino della guerra.
Mi sono chiesto tante volte cosa avrei fatto io, ma non mi sono mai dato una risposta. Mi sono invece chiesto come si doveva sentire un militare al quale veniva comunicato che, da oggi, non doveva più seguire gli ordini di chi glieli aveva dati fino ad allora.
Terzi dopo la guerra si iscriverà al Partito Comunista. Oggi dice: “La mia patria è la lingua, comprensiva dei dialetti”.
Pavese ne La casa in collina dice: “Certe cose o le si fa per bene o è meglio non cominciarle”.
Il suo Corrado ha rifiutato la guerra. Durante la Resistenza si è nascosto. Pavese era stato accusato di vigliaccheria, all’uscita del libro. Incredibilmente, visto che lo scrittore era stato spedito al confino, perché anti fascista, nel 1935. Anche senza conoscere questo particolare, se andiamo all’ultima pagina, e la leggiamo attentamente, non la penseremo comunque così: “Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: ‘E dei caduti cosa facciamo? Perché sono morti?’. Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti. E soltanto per loro la guerra è finita davvero”.
Dall’ottobre del 1943 al 28 aprile 1945 in Italia sono successe cose terribili. Nel marzo del 1944 ci fu l’eccidio delle Fosse Ardeatine e nell’estate del 1944 ci furono le stragi di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, tutte feroci rappresaglie naziste. Il regista statunitense Spike Lee ha dedicato a quest’ultimo episodio il film Miracolo a Sant’Anna che lascia capire come il comportamento dei Partigiani non sia sempre stato eroico. Reagì malissimo a quel film Giorgio Bocca (grande giornalista ed ex Partigiano, morto il giorno di Natale del 2011) che scrisse: “Spike Lee ha una idea, sia pur labile, di cosa sia la guerra partigiana in ogni tempo e in ogni luogo? E’, per l’appunto, ricorrere alla sorpresa, evitare di essere agganciati da un nemico superiore in numero e armi, mordere e fuggire al duplice intento di far del male al nemico e di sopravvivere. Questi sono i fondamentali di ogni resistenza armata, l’alternativa è una sola: rinunciare alla lotta di liberazione”.
Spike Lee, che pure ha tenuto a precisare che il suo film è opera di finzione e non documento storico, ha a sua volta commentato: “Le reazioni viscerali di questi giorni mi fanno pensare che la profonda ferita apertasi in Italia durante la seconda guerra mondiale non si sia ancora rimarginata”.
Purtroppo è così. Sempre purtroppo, le parole di Pavese (morto suicida nel 1950, dopo una vita sfortunata; la gloria gli arriverà solo postuma, incluso il merito di aver tradotto per primo Moby Dick, per un compenso di 1000 lire di allora: sarebbe stato pari a 1.4 milioni delle lire del 2000) erano drammaticamente profetiche.
Dopo che il 25 aprile 1945 i tedeschi si erano arresi, Benito Mussolini cercherà di fuggire e verrà arrestato a Dongo, nei pressi di Como, mentre si nascondeva su un camion di militari.
Il Comitato di Liberazione Partigiano incarica il Colonnello Valerio (al secolo Walter Audisio) di giustiziare Mussolini, contravvenendo al volere degli anglo americani. Audisio ottiene un salvacondotto dal generale Raffaele Cadorna (il figlio di Luigi, Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito durante la prima guerra mondiale) e prende in consegna Mussolini. Davanti a Villa Belmonte, in località Giulino di Mezzegra, Audisio fucila Mussolini con una scarica di mitra. Claretta Petacci, che si frappone tra le pallottole e Mussolini, muore a sua volta.
Va detto che una versione ufficiale di quei fatti non si ebbe fino al 1996, alla pubblicazione del Memoriale del Partigiano Guido (Aldo Lampredi), con il cui mitra Audisio (il suo si era inceppato) fece fuoco.
Nella notte di domenica 29 aprile Audisio scarica i cadaveri di Mussolini, della Petacci e di diversi gerarchi fascisti in piazzale Loreto a Milano, nello stesso punto in cui i nazisti avevano esposto un anno prima i cadaveri di 15 partigiani fucilati. Attorno alle 11, dopo averli ripuliti dagli sputi e dagli ortaggi con cui erano stati oltraggiati dalla folla, i vigili del fuoco appendono 5 corpi (tra cui quelli di Mussolini e della Petacci) per i piedi. Dopo 2 ore, i Partigiani li deporranno.
Credo che si capisca bene a che livello di barbarie si era arrivati. Aggiungiamo che, ufficialmente, vennero giustiziati oltre 1700 gerarchi fascisti. Nella Storia dell’Italia Fascista di Salvatorelli e Mira (2 storici di primo piano e anche antifascisti della prima ora; il loro lavoro, edito da Einaudi e ristampato negli Oscar Mondadori, è tanto monumentale quanto autorevolissimo) c’è addirittura una tendenza a minimizzare quel numero.
Audisio fu Deputato e Senatore e morì d’infarto nel 1973. Nel 1967 fu assolto da un’accusa di omicidio pluriaggravato e vilipendio di cadavere per i fatti del 1945 (la famiglia Petacci chiedeva un risarcimento danni, il Parlamento concesse l’autorizzazione a procedere) che, si legge nella sentenza, accaddero in una “azione di guerra”.
Mentre ero a Zanzibar, e pensando a quello che “di buono” ci potrebbe essere stato nel Fascismo, ho letto anche Gli indifferenti, che Alberto Moravia ha scritto a 22 anni e anche faticato parecchio a pubblicare. La prima edizione (che un editore rifiutò con il poco lusinghiero, e poco lungimirante, giudizio: “E’ una nebbia di parole”) la stampò infatti a spese del padre.
L’Italia degli anni ’30 che Moravia descrive è un paese nel quale le persone non sono quasi mai quello che dicono di essere e quello che sembrano. Moravia usa una lingua modernissima (detto oggi; allora, sarà sembrata rivoluzionaria) e pennella immagini estremamente efficaci: “Tutto appesantito dalla digestione, nelle pause un silenzio grave apriva il suo sbadiglio”.
Moravia a quel tempo aveva vissuto poco, a causa di una salute cagionevole. Il suo mondo se lo era costruito nella testa, creato dai libri che aveva letto. Ma il personaggio di Carla (“…quei regali, quei vestiti sognati, le parvero legati da un’associazione inevitabile: ‘Dio mio, è questa la nuova vita’?”) anticipa in maniera inquietante quel che l’Italia si apprestava a diventare: attenzione totale ai beni materiali, costi quel che costi ottenerli. E per iniziare la “nuova vita”, Carla deve “distruggere” quella precedente. Moravia si vendica di lei, dicendoci ripetutamente che ha “la testa grossa”.
Merumeci è un altro esempio di quel che l’Italia stava per diventare: “Non lavora, ma la sua ricchezza non diminuisce” e secondo lui: “Il futuro di un uomo dipende dalle conoscenze”
Michele, il più giovane, si immagina l’omicidio di Merumeci, ma poi scopre di avere sognato e di “non provare nulla”. Per esprimere sentimenti, deve “fingere” (è indifferente, appunto).
Ma questa indifferenza non impedisce che finisca un’epoca, anche se questi borghesi si illudono del fatto che nulla cambi.
Da Moravia, che costruisce la sua arte leggendo, a uno scrittore che “non è interessato quasi a nulla” e scrive “di quel che resta”. Ovvero: “Una moglie che uccide il marito, uno stupratore e i suoi pensieri e sentimenti mentre addenta un hamburger. Della vita nelle fabbriche o nelle stanze dei poveri, dei mutilati, dei malati di mente. Di questa merda. Scrivo un sacco di questa merda”.
Ho letto Shakespeare never did this di Charles Bukowsky. Del geniale Charles Bukowsky, che dileggiavo quando ero ragazzo e mi sentivo la reincarnazione di Oscar Wilde. Lo dileggiavo per la sua lingua vera, che non era (e non poteva essere perfetta). E quella sua frase: “Hemyngway? Sapeva come si fa a scrivere, ma non sapeva come si fa a ridere”.
Spero che Bukowsky, ovunque sia (è morto nel 1994), potrà perdonarmi per questo. Io, glielo assicuro, ho sempre in mente questi suoi versi:
Se non ti esplode dentro a dispetto di tutto, non farlo
A meno che non ti venga dritto dal cuore e dalla mente
E dalla bocca e dalle viscere, non farlo