Guardo il Templo Mayor (o meglio: quel che ne resta) e non posso non ricordare: Vennero suonati il cupo tamburo di Huichilobos e molte altre buccine e corni e strumenti come trombe, e il frastuono era terrificante. Tutti noi guardammo in direzione della grande Piramide, da dove giungeva il suono e vedemmo che i nostri compagni, catturati quando era stato sconfitto Cortés, venivano portati a forza su per i gradini per essere sacrificati. Quando li ebbero portati sulla piccola piazza, davanti al santuario dove sono custoditi i loro maledetti idoli, vedemmo che ponevano piume sulle teste di molti di loro, e ventagli nelle loro mani; e li costrinsero a danzare davanti a Hiuchilobos, e dopo che ebbero danzato, immediatamente li stesero riversi su pietre piuttosto strette preparate per il sacrificio, e con coltelli di pietra squarciarono loro il petto ed estrassero i cuori palpitanti e li offrirono agli idoli che stavano là. Quindi a calci gettarono i corpi giù per la gradinata e i macellai indios che li attendevano là sotto tagliarono le braccia e i piedi e scuoiarono la pelle dei volti e quindi la prepararono come fosse pelle da guanti, con le barbe, e la conservarono per le loro feste. Allo stesso modo sacrificarono tutti gli altri e mangiarono le gambe e le braccia e offrirono agli idoli i cuori e il sangue.
Lo ha scritto Bernal Diaz del Castillo nella sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España. Il libro, in 2 tomi, è consultabile gratuitamente on line alla Biblioteca Virtual Miguel De Cervantes.
Bernal Diaz non era il cronista dei Conquistadores. All’epoca dei fatti (siamo attorno al luglio del 1520, quando sembrava che gli Aztechi avessero sconfitto Hernan Cortés) aveva meno di 30 anni ed era un militare di umili origini che era sulla strada per collezionare la partecipazione a 119 battaglie nel Nuovo Mondo. La cronaca era stata affidata a un certo Francisco Lopez de Gòmara, un Prete cattolico che era il Cappellano di Cortès. Ma che nella Nuova Spagna non era nemmeno stato. Fu quest’ultimo a scrivere la Cronica de Conquista de Nueva Espana nel 1552. Bernal Diaz, che non era laureato come Gòmara, lesse il libro, ritenette che la storia non fosse raccontata correttamente (in particolare, che fossero esaltati i meriti di Cortés e nascoste le atrocità da lui commesse) e, nel 1568 (ormai ottuagenario), iniziò a scrivere la sua storia veritiera. Scritto male, frutto di una certa megalomania dell’autore, il libro non venne pubblicato fino al 1632, oltre 50 anni dopo la morte di Bernal Diaz, spentosi a oltre 90 anni di età in Guatemala, dove si era potuto ritirare grazie ai servigi resi al Re di Spagna. Non è un bel libro, ma è uno dei pochissimi resoconti scritti di quegli eventi ad essere autorevole.
Da Bernal Diaz abbiamo imparato che l’impresa di Cortès era ormai fallita, all’inizio del luglio 1520. Il Conquistador aveva lasciato Tenochtitlàn (come ho scritto nella primissima puntata di questo resoconto, noi la conosceremo come Gran Ciudad de Mexico dal nome originario degli Aztechi, che era Mexica). Era in lacrime, Cortès. Tanto che la notte tra il 30 giugno e il primo luglio per i messicani è la Noche Triste, in ricordo del pianto di Cortès. Aveva sottomesso il grande Moctezuma (o Montezuma: Il gran Montezuma era un uomo di circa quarant’anni, di alta statura e ben proporzionato, piuttosto asciutto e di colorito olivastro scrive Bernal Diaz), che aveva creduto alla sua essenza divina. Aveva sottomesso, dopo la morte di Moctezuma (tutt’ora misteriosa: la storiografia ufficiale dice che lo avevano ucciso gli stessi suoi ex sudditi, ma ultimamente si pensa che sia stato torturato e ucciso dagli spagnoli), il suo successore Cuitlahuac (fratello di Montezuma e ucciso dal vaiolo, una delle malattie che decimeranno gli aztechi). Purtroppo per Cortès, Cuauhtémoc (sovrano poco più che ventenne) lo riteneva molto umano, aveva organizzato un esercito molto numeroso e lo aveva cacciato.
Cortès pensava a quel punto di aver perso tutto. La sua gloria era infatti stata tutta costruita nelle Americhe. Malediva il suo nemico giurato Diego Velazquez, Governatore di Cuba, che lo aveva trascinato in una lotta fratricida pochi mesi prima, obbligandolo a lasciare Tenochtitlàn in mano a Pedro de Alvarado. Quest’ultimo aveva massacrato i fedeli giunti al Templo Mayor; lo scopo era depredarli di oro e gioielli.
Ma, è noto, Cortès seppe trovare la soluzione. Convinse la città di Tlaxcala (che in effetti era la capitale di varie Città Stato confederate) che gli Aztechi (un Impero) erano oppressori sanguinari, che presto o tardi avrebbero sacrificato tutti ai loro dei. Fu l’inizio di una ribellione che permise a Cortés di prendere Tenochtitlàn il 13 luglio 1521. Nel 1525 Cuauhtémoc venne giustiziato e, con lui, di fatto finì la civiltà degli Aztechi.
In 100 anni la popolazione nativa dell’area calò da 25 milioni di persone a meno di un milione. A causare il disastro non furono le azioni dell’esercito di Cortès, che pure massacrò decine di migliaia di persone, ma piuttosto le malattie che erano arrivate con gli Europei (vaiolo e peste in particolare, ma anche semplici raffreddori). Il Messico tornerà ad avere una popolazione così ampia solo nel 1960.
Il Templo Mayor è a un passo dalla Cattedrale e lo si vede dall’alto se si sale al campanile. Ovviamente, la Cattedrale è un lascito del Barocco e con gli Aztechi non c’entra nulla. Il sito dove si trova il Templo Mayor è stato reso visitabile solo dal 1978. Nel corso dei secoli, era stato costruito di tutto, sulle fondamenta del Tempio che Cortès aveva deciso di radere al suolo.
E’ impressionante come lo Zocalo (l’enorme piazza principale di Città del Messico; mi affido ancorà a Bernal Diaz, anche perchè le sue parole sembrano scritte oggi: E’ piena di gente che parla, alcuni comprano e altri vendono. I nostri soldati dicono di non aver mai visto tanta genete e sentito tanto rumore e alcuni di loro erano stati a Costantinopoli, a Roma e in tutta Italia) sia legata alla tradizione Azteca. Montezuma risiedeva nello stesso punto (o almeno, così ci è stato tramandato) dove oggi sorve il Palazzo Nazionale, residenza del Presidente della Repubblica.
Tradizione Cattolica e Storia Precolombiana si fondono. Vicino a una statua di Giovanni Paolo Secondo ci sono i presunti discendenti degli Aztechi che improvvisano danze a uso dei turisti. Sotto i portici dove sorge il Monte dei Pegni (qui avrebbe trovato alloggio Cortés, appena entrato a Tenochtitlàn), una figurante abbigliata da suora, ma con provocanti calze a rete e giarrettiere, attacca pesantemente il Vaticano sulla questione delle pedofilia.
Spostandosi di poco, si incontra un’altra Città del Messico: quella del commercio. O meglio, quella di come sbarcare il lunario. A fianco della Cattedrale ci sono idraulici, imbianchini, muratori che offrono i loro servizi.
In Calle Correo Mayor i negozianti attirano i clienti con il megafono o il microfono. E’ un delirio, ma è bellissimo.
Ci sono musicisti di strada improbabili. Una famigliola stonatissima, ma che mette un impegno incredibile, fa fermare addirittura la gente. Il bimbo vestito da Pancho Villa è qualcosa di sensazionale.
Il rumore a Città del Messico aveva impressionato Bernal Diaz nel 1500, ma non è molto diverso oggi: è qualcosa con cui si deve convivere. Le scuole di lingua hanno altoparlanti che ripetono incessantemente la lezione uno del corso d’Inglese (the food is on the table e frasi del genere). I negozi hanno a loro volta altoparlanti che diffondono la musica dei generi più svariati. I venditori abusivi si segnalano l’un l’altro l’arrivo della polizia con fischi ad altissimo volume. I teli su cui appoggiano la merce sono organizzati per essere ripiegati e trasportati in men che non si dica.
Contro ogni mia aspettativa, la visita di Città del Messico si rivela davvero interessante. Anche allontanandosi dallo Zocalo (la piazza principale è così chiamata perché tempo fa era stata dotata di una enorme piattaforma che doveva sostenere un monumento che poi non è mai stato costruito); si arriva in Plaza Santo Domingo, dove i discendenti degli scribani della corte spagnola fanno ancora lo stesso mestiere e compilano (con macchine da scrivere vintage e la carta carbone) domande, lettere, richieste per conto dei cittadini. Il palazzo delle Poste è costruito in stile fiorentino. I murales di Diego Rivera, dentro il Ministero della Pubblica Istruzione, sono veri capolavori. Gli servono per raccontare la storia attraverso episodi di vera vita vissuta.
Più di tanto in 2 giorni non si può vedere (e non parliamo dei vari musei…), ma prima di andarsene conviene fare un salto alla Basilica di Santa Maria di Guadalupe, che è una vera Cittadella della Fede. Oltre alla Basilica in stile Barocco (che cade un po’ a pezzi) e alla Chiesa Parrocchiale, c’è una Fonte Battesimale. E, soprattutto, c’è una specie di palazzo dello sport dove confluiscono i fedeli per la Messa e dove, parola di Benedetto XVI quando non si era ancora dimesso, si può avere l’Indulgenza Plenaria. Una Benedizione l’abbiamo presa anche noi. E siamo potuti Ir in Paz.