Dagli ASI agli AFI: quanta confusione nel baseball italiano

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Cerco di essere chiaro fin dall’inizio: io non ho mai condiviso la normativa sugli atleti di scuola italiana (o ASI). Anche senza tirare in ballo il solenne articolo 3 della Costituzione (“tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”). La trovavo una normativa contraddittoria. Per dire: che senso ha porre dei limiti all’utilizzo in campionato di un atleta che poi viene convocato in Nazionale? O che senso ha consentire di giocare come atleta di scuola italiana a elementi di 40 e passa anni e costringere a stare in panchina un giovanotto di 23 solo perché non è tesserato da 6 anni. E ancora: ma sarà più di scuola italiana chi è arrivato nel nostro campionato a 19 anni e da lì non si è mai spostato, o chi se n’è andato a 17 senza mai giocarci?

Alla normativa ASI però un pregio bisogna riconoscerlo: aveva uno scopo. Tentava (per quanto in modo un po’ maldestro) di forzare i club a far giocare i ragazzi cresciuti nei settori giovanili. Operava poi per evitare l’estinzione dei lanciatori formati dal nostro baseball. Di loro merce abbastanza rara, se si pensa che quelli veramente in grado di primeggiare (da Tagliaboschi a Glorioso, da Lercker a Bertoni, da Ceccaroli a Riccardo De Santis) li conosce, per nome e cognome e segni particolari, qualsiasi appassionato di batti e corri.

Alla recente riforma che cancella la categoria ASI, introduce gli Atleti di Formazione Italiana (AFI; per altro, sono considerati AFI tutti coloro che avevano la qualifica di ASI al 31.12.2017) e, soprattutto, equipara nell’utilizzo in campo i cittadini dell’Unione Europea agli Italiani, un senso faccio fatica a trovarlo.

Ho scritto che “faccio fatica” a trovare un senso in una norma che equipara i Comunitari agli Italiani “nell’utilizzo in campo” non a caso. Perché NON equiparare i cittadini UE agli Italiani nel tesseramento avrebbe effettivamente comportato la violazione del Trattato dell’Unione. Ce lo dice la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia dopo che la Federazione Nuoto (FIN; 2011) aveva varato un regolamento riguardante il tesseramento che recitava: “…è possibile tesserare sino a un massimo di 2 (due) atleti non italiani”.

Ci sarebbe stato semmai da contestare alla UE che la procedura d’infrazione (che sarebbe valsa una sanzione da 10 milioni di euro se la FIN non avesse sistemato il regolamento entro il 26 maggio 2012) partiva dall’articolo 48 del trattato, che “implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra lavoratori degli Stati membri…”. La FIN e il CONI provarono a contestare quel “lavoratori”. Nel senso che la FIN non ha un settore professionistico (in Italia regolamentato dalla Legge 91 del 1981, che presuppone club costituiti in forma di società di capitali). Ma la UE fece notare che, dal suo punto di vista, “lavoratore” è colui che vive dell’attività che svolge. Insomma, lo status di atleta professionista (quindi “lavoratore”) lo dà l’entità del compenso ricevuto, sotto qualsiasi forma.

L’articolo 48 del trattato è stato alla base di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione passata alla storia come Sentenza Bosman e spesso, quanto impropriamente, ricordata come Legge Bosman. Nel 1995 il calciatore belga Jean Marc Bosman voleva trasferirsi dal RFC Liegi al Dunkerque in Francia. Il suo contratto era scaduto, ma i belgi pretendevano un indennizzo (per altro, riconosciuto dalle norme dell’epoca). La Corte giudicò il sistema restrittivo e consentì a Bosman di trasferirsi a titolo gratuito. Quella sentenza cambiò la Storia del calcio europeo, costò il furto di diversi giovani calciatori dai vivai italiani (Gattuso e Giuseppe Rossi i nomi più celebri) prima che la Federazione Calcio (FIGC) ponesse rimedio e continua ad avere conseguenze. Ad esempio, nell’aprile del 2015 un Giudice del Tribunale Civile di Verbania ritenne nullo l’accordo che vincolava un calciatore minorenne fino ai 25 anni alla società dilettantisca di appartenenza. Anche se era stato avallato da entrambi i genitori. Con la legge 586 del 1996 il Legislatore italiano ha eliminato la cosiddetta indennità di preparazione e promozione.

Jean Marc Bosman alla Corte di Giustizia UE nel 1995

Alla presentazione della nuova normativa (novembre 2017), almeno a quanto risulta dal verbale pubblicato dal sito Tuttobaseball, le società del massimo campionato italiano (fin lì Italian Baseball League, oggi Serie A1) chiesero di imporre “obbligatorietà nel line up” (ovvero nel numero di giocatori in campo) e di riservare una partita a un lanciatore AFI. Il Presidente della Federazione Baseball Softball (FIBS) Marcon rispose che, dopo un confronto con gli avvocati del CONI, aveva appreso che non era possibile imporre l’obbligatorietà “sull’effettivo utilizzo in campo dei giocatori”. Concetto recentemente ribadito da Marcon in una intervista pubblicata dal sito FIBS a firma Marco Landi: “Sarò sintetico: è il solo modo per rispettare le norme europee”.
Marcon aggiunge che “la Federazione non obbliga nessuno a non fa giocare gli atleti italiani…quello che non possiamo fare, o permetterci, è di andare contro la legge comunitaria”.

Evidentemente, Marcon si è confrontato con “avvocati del CONI” diversi da quelli con cui ha parlato la Federazione Pallavolo (FIPAV), che prevede l’obbligo di 3 italiani in campo sempre (su 7 giocatori: i 6 di posizione e il libero). Che poi devono essere gli stessi avvocati che hanno portato il Presidente della Federazione Pallacanestro (FIP) Petrucci (oltretutto ex Presidente del CONI) a proporre una norma similare, con la benedizione del suo successore al vertice dello sport italiano Malagò.

Oltretutto, Marcon e la FIBS non sono attentissimi allo spirito del Trattato, sempre al centro dei pronunciamenti della Corte di Giustizia UE: “il diritto a non essere discriminato” del cittadino/atleta.
Il tesseramento dei giocatori AFI costa infatti circa un decimo rispetto a quello dei giocatori non AFI, quindi anche qualsiasi cittadino UE che arriva in Italia dopo aver compiuto 21 anni.
Ma anche i giocatori AFI potrebbero trovare qualcosa da ridire sul fatto che il comunitario che arriva in Italia non è sottoposto a vincolo, mentre il giocatore cresciuto in un vivaio può trasferirsi solo a titolo oneroso.

Chiudo ricordando che qualcuno, anni fa, mi insegnò l’espressione “mettere il culo nelle pedate”…