Si spegne la luce sul World Baseball Classic 2009

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Pubblicare le ultime 3 Cartoline dal World Baseball Classic 2009 mi consente di tornare sul caso di Amber Dubois, con cui apro la Cartolina del 21 marzo. Allora mi ero incuriosito per il modo inusuale che la famiglia aveva scelto per cercare questa quattordicenne. Ma sinceramente, mi ero convinto che si trattasse di una fuga da casa. Addirittura, credevo che qualcuno sulla vicenda ci avesse marciato per fare soldi.
Amber era invece stata rapita, stuprata e uccisa da John Albert Gardner, all’epoca dei fatti trentenne. Gardner verrà arrestato nel febbraio 2010 a causa di un altro omicidio (quello di Chelsea King, rapita mentre faceva jogging; sarà incastrato dalla prova del DNA) e confesserà l’omicidio di Amber dietro la garanzia che non verrà condannato a morte. Sta scontando una doppia sentenza a vita, studiata perchè non sia prevista la possibilità che esca dal carcere in nessun caso, presso la prigione californiana di Mule Creek, uno degli istituti dove sono rinchiusi i detenuti che non possono essere mischiati al resto della popolazione carceraria per la loro stessa sicurezza.
I poveri resti di Amber Dubois furono ritrovati nella riserva Indiana di Pala, California. Dopo averla stuprata, Gardner l’aveva accoltellata a morte. La cosa incredibile di questa vicenda è che Gardner aveva già scontato 5 anni di galera per aver molestato una tredicenne nel 2000 e durante la libertà vigilata era stato ripetutamente richiamato per essere stato individuato nelle vicinanze di scuole femminili.
Alla luce di questo, il mio testo potrebbe sembrare irrispettoso. Se è così, chiedo perdono alla memoria di Amber e Chelsea. Mi sembrava comunque giusto non modificarlo
Nella seconda parte della cartolina ricordo un famoso episodio della storia dei Dodgers, quando ancora erano la squadra di Brooklyn.

21 marzo- Quanti pensieri provoca entrare al “Dodger Stadium” in un pomeriggio di primavera

Se c’è una cosa che mi sconcerta degli Stati Uniti sono le pubblicità che si trovano lungo le autostrade. Intanto perchè sono enormi e poi perchè pubblicizzano cose che io non avrei mai pensato di vedere pubblicizzate lungo un’autostrada.
Durante l’unico giorno libero del World Baseball Classic, ho pensato bene di gironzolare per il deserto del Mojave (ovviamente in auto). E mi è balzato all’occhio un cartello che recitava “Riportate Amber a casa”. Si parla evidentemente di una persona smarrita, con tanto di indicazione di un sito internet che sono andato naturalmente a visitare. Sempre naturalmente, non voglio mancare di rispetto al dolore della famiglia che sta cercando questa ragazzina (classe 1994). Non so nemmeno di preciso in che circostanza Amber è scomparsa e quindi non posso addentrarmi più di tanto nell’argomento. Ma mi chiedo: la ricerca di una persona si fa così?
Il sito internet, poi, è micidiale. Perchè informa su dettagli che, per come sono fatto io, tenderei a tenere segreti. Come ad esempio gli orari delle preghiere per Amber.
Come spesso accade da queste parti, il denaro ha la sua bella importanza. Si parla di ricompensa per chi aiuterà a far tornare Amber a casa o chi permetterà di far arrestare chi è responsabile della sua scomparsa.
Ma la cosa sconcertante è che, cenando da Applebee’s (una catena di ristoranti che su questa vicenda ha anche costruito una promozione) si può donare parte dell’importo del conto ad un fondo per Amber.
Non che noi, la Patria di Telethon, ci possiamo stupire più di tanto di queste politiche di marketing come conseguenza di azioni apparentemente benefiche e disinteressate, però vi confermo che io ci sono rimasto quasi male.
L’America, sto lanciandomi nel luogo comune più comune quando si parla di Stati Uniti, è la terra delle contraddizioni.

Un po’ infastidito dalla storia di Amber, sono arrivato al Dodger Stadium e mi sono subito commosso.
Un collega mi ha infatti fatto notare come il Classic abbia scelto per disputare la finale la sede più logica, visto che la Franchigia dei Dodgers è quella che per prima ha creduto al baseball internazionale.
Questa Organizzazione è la prima che ha creduto a un sacco di cose. Ad esempio, al fatto che i neri potessero giocare assieme ai bianchi. Con la maglia dei Dodgers (anche se la Franchigia aveva ancora sede a Brooklyn) debuttò in Major League Jackie Robinson, il primo non bianco ad aver giocato in Grande Lega. Un uomo che ha avuto a sua volta l’onore di fare un sacco di cose per la prima volta. Ad esempio, è stato il primo commentatore tecnico afroamericano a occuparsi di baseball in televisione.
A costo di ripetere troppe volte la parola nero, mi rifiuto di scrivere di colore, perchè è una definizione di una ipocrisia fastidiosa (quasi fastidiosa come la campagna di marketing legata alla scomparsa di Amber….).
Per inciso, scrive John Updike in uno dei suoi ultimi lavori: “Una volta dicevamo negro, che almeno è una parola di derivazione antropologica. Oggi chi la usa viene guardato con sospetto, ma io sono convinto che anche chi usa nero tra un po’ verrà guardato con sospetto. Anche perchè è un termine fortemente impreciso”.

Allo stadio dove giocano i Brooklyn Cyclones una statua ricorda l’episodio di Pee Wee Reese e Jackie Robinson

Vista con gli occhi di oggi, la storia di Jackie Robinson ha dell’eroico e dell’epico. Ma allora, non doveva essere per niente facile per lui tapparsi le orecchie per non sentire le tonnellate di insulti che gli riservavano i tifosi delle altre squadre (quando non gli stessi giocatori avversari o addirittura qualche suo compagno di squadra).
Un bel giorno (la data è incerta) accadde che qualcuno esagerò. Ma quello che passò alla storia non fu un cazzotto, una reazione rabbiosa. Fu un abbraccio. Quello che Pee Wee Reese (il Capitano dei Dodgers di Brooklyn) diede a Robinson sul campo. Un gesto tanto clamoroso che è immortalato da una statua. Clamoroso proprio per la grazia, l’affetto che esprime. E proprio per l’effetto devastante che ebbe, nella sua semplicità.
E Reese, a chi gli chiese di spiegare cosa intendeva, rispose con una frase di quelle che di solito vengono fuori ai Presidenti degli Stati Uniti: “Si può odiare un uomo. Si può farlo per tanti motivi. Ma il colore della sua pelle non è un motivo valido”.

A questo pensavo, entrando sabato 21 marzo al Dodger Stadium.

La cartolina del 24 marzo inaugura un mio certo filone nostalgico nel quale mi riconosco si e no. Voglio dire: mi riconosco in tutte le sensazioni che l’ascolto di Born to Run di Springsteen mi ha dato, mi riconosco meno nel modo in cui ho cercato di trasmetterle ai lettori. A distanza di 8 anni, sono più propenso a guardare comunque a quello che deve ancora venire, piuttosto che fossilizzarmi su quello che è già passato. Non a caso, dopo quelle riflessioni ho visto Bruce Springsteen dal vivo 3 volte e accumulato tutta una serie di altri ricordi legati alle sue canzoni.
Per quel che riguarda Vin Scully, è andata a finire che a momenti mi ritiro prima io, di lui…

24 marzo- Ti accorgi del tempo che passa anche da una canzone

Oggi mi sono sentito vecchio.
Dovete sapere che tra i vari canali della radio satellitare, che abbastanza incomprensibilmente ricevo con l’autoradio della mia Chevrolet Impala a noleggio, ho trovato E Street Radio. Si tratta di un canale che trasmette solo canzoni di Bruce Springsteen. Questo canale trasmette anche diversi spezzoni di concerti del nostro ed è capitato che proponesse la celebre presentazione fatta a Philadelphia negli anni ’90 di Born to run, una delle canzoni simbolo della produzione di colui che gli appassionati di rock chiamano The Boss.
Springsteen a quell’epoca aveva smesso di suonare la canzone dal vivo, perchè la riteneva troppo legata ai suoi anni giovani (parla di una coppia che se ne va in giro, senza meta e senza soldi e un celebre verso conclude: “Tramps like us/baby we were born to run” ovvero “vagabondi come noi/piccola, siamo nati per correre”…non credo ci sia qualcuno della mia generazione che non si è commosso, prima o poi, per queste parole).
Quel giorno Il Boss decise di cantare Born to Run solo voce e chitarra e la presentò con un discorso che in qualche maniera oggi fa parte della letteratura americana. Concluse: “Questa canzone mi ha fatto compagnia mentre capivo che la libertà non ha senso se non è condivisa con una comunità, con altri individui. Spero abbia fatto buona compagnia anche a voi mentre facevate il vostro percorso”.

Bene, avevo le lacrime agli occhi pensando a come Springsteen interpreti l’America e quello che io ho sempre amato dell’America e, con un riflesso incondizionato, ho cambiato canale. In onda c’era una canzone dal suono simil Springsteen, che mi ha incuriosito. Ma quando ho sentito le parole, per poco non sono finito fuori strada.
In Italiano suonano più o meno così: “Vai da tua madre/fatti dare la carta/preleva un po’ di soldi/poi prendiamo l’autostrada e siamo liberi di andare”.
Liberi un corno, ho pensato. Ma con il bancomat della mamma ero capace anch’io!
Ma poi la rabbia mi è passata, perchè ho pensato che crescere cantando “baby we were born to run” è stato un privilegio e per chi ascolta canzoni in cui si incita a farsi dare il bancomat dalla madre per prelevare i soldi per una fuga, proprio mi dispiace.
Comunque, resta il fatto che mi sono sentito vecchio.

La sala stampa del Dodger Stadium è intitolata a Vin Scully. Un uomo che racconta da 59 anni le partite dei Dodgers per radio e per televisione e che ha ricevuto tutti i premi possibili ed immaginabili (è nella Hall of Fame della radio, gli è stato da un Emmy Alla Carriera…).
Sinceramente, non so se voglio raccontare baseball per 59 anni. Anche perchè durante la prossima estate celebro i 25 anni della mia prima radiocronaca e li trovo già tantissimi. Andare avanti per altri 34 sinceramente mi sembrerebbe eccessivo.
Devo però ammettere che avere una sala stampa intitolata non mi dispiacerebbe. Ne riparliamo tra un 20 anni, facciamo così.

Da sinistra: Fernando Valenzuela e Tom Lasorda in coppia al lancio cerimoniale che ha preceduto la finale del Classic 2009

Questa sera al Dodger Stadium c’è un’atmosfera incredibile. La finale è stata preceduta da una cerimonia a dir poco perfetta. Io ho deciso di scrivere queste righe durante la partita nella speranza di trasmettervi l’aria che si respira in questo impianto fantastico attraverso le mie emozioni.
I tifosi della Corea sono in larghissima maggioranza. Il loro Te-han-min-gu (almeno, così lo capisco io dalla spiegazione di un collega coreano significa…semplicemente Corea) mi resterà nelle orecchie per parecchio tempo. E credo resterà nelle orecchie anche di Ichiro Suzuki, che ad ogni turno in battuta viene travolto dai buuuu del pubblico coreano.
Ormai sono apertamente tifoso della Corea. Ho persino comprato la T-shirt della squadra. Perchè trovo la storia del baseball coreano negli anni recenti sinceramente illuminante. Fuori dalle Olimpiadi del 2004, la Corea si è messa al lavoro con grande costanza. E i risultati parlano abbastanza chiaro: 2 Mondiali Juniores (2006 e 2008, sempre battendo in finale gli Stati Uniti), tra le prime 4 del Classic 2006, la medaglia d’oro aGiochi di Pechino e ora la finale del Classic 2009.
Chapeau, Tehanmingo.

Questa è una Cartolina alla quale sono molto affezionato. Nel tono a tratti nostalgico del testo questa volta mi riconosco. Mi piace in effetti molto la citazione che ho tratto da Sportswriter di Richard Ford e mi diverte non poco il fatto di esseremi auto paragonato a J. M. Straczynski, perchè lo sceneggiatore venne accusato di essere diventato troppo invasivo, nella gestione dei testi di Babylon Five. Mi spiego: conosco qualcuno che ha pensato che io fossi diventato troppo invasivo, nella gestione del World Baseball Classic per conto della FIBS.

 27 marzo-E’ ora di spegnere la luce, il World Baseball Classic è proprio finito

Il Classic è proprio finito.
Guardo il doganiere tedesco che mi chiede se quel computer lo avevo già quando sono partito dall’Italia o se l’ho comprato negli Stati Uniti. E sorrido, perchè io e quel computer siamo stati una cosa sola per un mese. Per mostrarglielo, mi cade la copia di Moby Dick che mi ha aiutato a passare il tempo negli aeroporti. E a proposito, non sono ancora riuscito a scoprire se la catena Starbucks Coffee ha preso il nome da quella frase: “E’ una caffettiera, signor Starbuck”. Ho anche scritto all’azienda, ma non mi hanno ancora risposto (Pochi giorni dopo mi risponderanno, facendomi capire che avevo fatto una domanda tipo “Ma a un codardo, si dice che fa il Don Abbondio perchè il personaggio di Manzoni era codardo”).
Il computer si vede che è vissuto, posso andare verso il mio ultimo imbarco. Lo dico, al doganiere: io mi porto sempre il computer, perchè sono uno sportswriter.
“Se scrivere di sport può insegnare qualcosa (e scrivendo di sport si ha a che fare con molte verità, oltre che con parecchie menzogne) è che se si vuole che la vita abbia qualche valore, bisogna essere preparati ad affrontare, presto o tardi, l’evenienza del rimpianto più terribile ed amaro…Scrivere, in fondo, è una cosa più complessa ed enigmatica di quelle che di solito mettiamo in rapporto con lo sport…L’anticipazione è il dolce dolore di chi sa cosa verrà dopo: è un imperativo per ogni vero scrittore… E scrivere di sport garantisce il metodo più facile per placare la sofferenza dell’anticipazione, una sofferenza che dura tutta la vita e senza la quale riesce a vivere soltanto chi fa il maestro di zen o è in coma profondo…”
Queste parole non sono mie. Le ha scritte Richard Ford in un libro che si intitola appunto Sportswriter, romanzo del 1986 che è una di quelle cose che ogni tanto riprendo in mano e rileggo. E l’ho appena fatto e le pagine sono ingiallite. E allora ho pensato di fargli un omaggio. A Sportswriter, a Richard Ford e alla persona che ero io quando ho letto il libro per la prima volta e non mi immaginavo certo che un giorno avrei fatto l’inviato al World Baseball Classic.

Cosa mi voglio portare a casa del Classic? Oltre alla bianchezza della balena che Melville descrive in Moby Dick e a tante foto, intendo.
Voglio riportare indietro quella cosa splendida che è lo Spring Break (le vacanze di Pasqua, in sostanza) per gli studenti americani. Che sciamano a frotte da dove c’è freddo verso la Florida e la California. Dove poi a volte non c’è neanche tanto caldo, specie quest’anno. Ma non c’entra con quello che volevo dire.
A me piace molto lo Spring Break perchè è qualcosa che la mia razionalità definirebbe stupido, e che certamente a 20 anni avrei condannato, ma che vale la pena di fare perchè lo fanno tutti. E poi è senza impegno. E poi a volte bisogna fare anche cose sbagliate, se no cosa siamo venuti al mondo a fare?

Al Dodger Stadium nel 2009 ho conosciuto l’attore Dominic Chianese, che ha dato il volto a Corrado Soprano nella serie televisiva HBO

Voglio ancora una volta cercare di riflettere (mi succede tutte le volte che torno dagli Stati Uniti e ormai ci sono andato 13 volte) se è meglio come sono loro (cioè precisi, organizzati, bravi al punto che a volte perdono di vista il buonsenso) o siamo meglio noi (che arriviamo sempre all’ultimo momento e poi ne usciamo con delle trovate, che non si può esitare a definire geniali, che ci lasciano ansia ma anni di ricordi di cui parlare).
Noi e loro, gli italiani e gli americani. Poi ci sono gli italian americans, che non è corretto tradurre con italo americani, ma piuttosto con americani di stirpe italiana.
Voglio riportarmi a casa l’emozione che mi ha dato Dominic Chianese quando diceva “La nostra cultura” (e senza dubbio parlava della cultura italiana). E, a proposito di italo americani (qui la definizione ci sta), l’emozione che ho provato quando sono riuscito a parlare con Reno Bertoia e Rinaldo Ardizoia. Due figli di emigranti (anzi, emigranti loro stessi, visto che sono nati in Italia) che sono arrivati a giocare in Grande Lega tanti anni fa e che sono legati al loro paese d’origine (Sono oggi morti entrambi, ma mi hanno consentito di scrivere articoli ai quali sono molto affezionato e che, presto o tardi, ripubblicherò su questo sito).
In questi anni, lavorando su tante ricerche di certificati e atti di naturalizzazione, ho imparato molto sulla storia dei nostri emigranti. Se la leggenda dice il vero, in fondo noi discendiamo da un emigrante (per quanto epico: Enea) e tante famiglie hanno radici nel Nuovo Mondo. Essere italiani è anche questo, non scordiamocelo.

E’ ora di spegnere la luce.
Non so perchè, ma ho davanti agli occhi la scena finale della serie televisiva Babylon 5: nell’ultimo episodio un tecnico è l’ultimo ad abbandonare la stazione spaziale, che finirà alla deriva nello spazio perchè ha ultimato il suo compito. E quel tecnico è interpretato dall’autore di quasi tutte le sceneggiature del telefilm: J. Michael Straczynski.
Ora non preoccupatevi: non mi sento l’autore del World Baseball Classic dell’Italia. Ma confesserò di sentire questa esperienza molto mia. Non sarò comunque certo io a spegnere le luci di una manifestazione che andrà avanti per molto tempo e avrà sempre più successo.

Lo sceneggiatore J. Michael Strazynsky in uno screen shot da YouTube

A ben pensarci, nel 2013 chissà se sarò ancora qui a spedire cartoline. Ma quel che è certo, è che tutti i ricordi che ho accumulato in 2 edizioni del torneo mi faranno buona compagnia per il resto della vita.

Nel 2013 ci sarò ancora, come testimonia l’e-book dedicato a quella edizione del Classic e che si può scaricare da questo sito. Da mercoledì 1 marzo inizierò a pubblicare le corrispondenti Cartoline.

4-FINE