Riflettendo grazie a Wallace e Calvino sulla scrittura creativa

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Quando leggiamo non siamo evidentemente solo passivi. E’ molto utile prenderne atto per chi scrive: aiuta a prepararsi all’impatto con il lettore. Che inevitabilmente, intepreterà quello che legge. Ma lo scrittore deve anche educare il lettore?

Mi ricordo benissimo che quando ho iniziato a scrivere intendevo lanciare un messaggio. E anche farlo con uno stile innovativo, se non unico. Adesso sono più nella fase che chi mi legge non deve fare fatica e, possibilmente, dovrebbe divertirsi. Il fatto è che dopo un paio di secoli di romanzi e qualche migliaio di anni di opere di fantasia, essere innovativi diventa abbastanza complicato. Già essere originali non è uno scherzo. Oltretutto, per raccontare bene una bella storia, non è che sia necessario essere originali.

David Foster WallaceDavid Foster Wallace ha scritto The broom of the system (La scopa del sistema) a meno di 25 anni.
Alla stessa età anch’io ero convinto di valere la pubblicazione e avevo prodotto già un bel po’ di materiale: una sorta di biografia dei Jam (il mio gruppo musicale preferito) intitolata Una marmellata di qualità, un racconto lungo dal titolo E’ così, un racconto breve che avevo chiamato L’Eroe, un altro racconto breve che non trovo più ma che parlava di un ragazzo che, quando si muoveva, era accompagnato da una massa che assorbiva le cose e le persone (che a ben pensarci, non è che fosse una cattiva idea). Fosse esistito allora internet, di sicuro queste cose le avrei pubblicate. Invece è andata a finire che le ho mostrate solo a qualche amico o parente. Con scarsa soddisfazione sia del lettore (che non aveva scelto di leggere) e nemmeno mia (che non avevo ricevuto commenti diversi da quelli di circostanza). E’ ovvio che buona parte del mio stile, ma allora non lo sapevo, era emulazione di qualche autore. In particolare, di Dino Buzzati. Ero ben lontano dal trovare una voce mia.
David Foster Wallace era stato invece spinto a pubblicare il suo romanzo (anche se poi per riuscirci aveva fatto la sua bella fatica, muovendosi nel mondo degli agenti), che su questo sito ho già definito “incredibile”, “rivelatore di un talento immenso” e “di una cultura letteraria sconfinata”. Ammettendo anche che: “in qualche modo mi imbarazza che Wallace sia stato capace di scriverlo a 24 anni”.
Parlando di sè stesso e del suo romanzo 10 anni dopo, David Foster Wallace disse al giornalista David Lipsky che trovava il libro buono, ma che sarebbe stato possibile scriverlo molto meglio.

La copertina del libro di Lipsky
La copertina del libro di Lipsky

La dichiarazione di Wallace è contenuta nel libro Although of course you end up becoming yourself (Come diventare se stessi, nella traduzione italiana edita da Minimum Fax). Si tratta del racconto degli ultimi giorni del Tour promozionale di Infinite Jest, il capolavoro di Wallace. Lipsky aveva ricevuto l’incarico di scrivere un profilo dell’autore per conto della rivista Rolling Stone. Ma aveva raccolto così tanto materiale che, dopo la tragica morte di Wallace (lo scrittore si suicidò nel 2008) e d’accordo con i famigliari, si mise al lavoro per trarne un libro, che venne pubblicato in effetti nel 2010.
Penso che il lavoro di Lipsky possa rappresentare un eccellente strumento da consigliare a chi si avvicina alla scrittura creativa. Perchè dalle parole che l’autore riporta fedelmente (aveva registrato tutto sulle leggendarie cassette, una addirittura presa a prestito da Wallace stesso) emerge cosa significa la scrittura per David Foster Wallace.
Wallace ammette che da ventenne si sentiva “molto più intelligente” di chiunque altro e in questo (secondo lui) sta il principale difetto di La scopa del sistema: nel complesso di superiorità dell’autore.

David non aveva evidentemente familiarità con Manzoni.
Ma dalle pagine del libro di Lipsky emerge che ha letto molto attentamente altri autori. Ad esempio Stephen King, del quale ammira il tentativo di cercare di far parlare i personaggi “esattamente come parla la gente”. E che a suo dire ha “un gran mestiere…può rifare lo stesso personaggio in eterno e scrivere lo stesso dialogo interiore…che andrebbe benissimo, se non scrivesse 2 libri all’anno”.
Wallace parla anche molto di cinema. Specie di Steven Spielberg, del quale non gli piace il fatto che “si capisce che sa benissimo che inserire certe scene compiace lo spettatore”.
Secondo Wallace uno scrittore, un artista in generale, deve essere “onesto”, non deve usare trucchetti per ingraziarsi il lettore o lo spettatore. Anzi, gli deve rendere la lettura anche un po’ complicata, perchè così gli fa credere di essere “furbo, all’altezza del testo che sta leggendo”.
Diciamo che è un concetto che in Infinite Jest Wallace ha sviluppato benissimo. Ma sul mestiere lo perdo un po’. Anche perchè lui stesso dichiara di usare trucchetti: “Certa gente crede che io sia espertissimo di certi argomenti, ma tutto quello che so dell’argomento in effetti è quello che si trova nelle poche righe in cui ne parlo”.

Italo Calvino
Italo Calvino

Si dà il caso che, mentre leggevo con grande attenzione il libro di Lipsky, contemporaneamente portavo avanti Se una notte d’inverno un viaggiatore… di Italo Calvino. Si tratta di un romanzo del 1979 nel quale Calvino esamina il rapporto tra scrittore, lettore e mondo dell’editoria. Formalmente, si tratta di un azzardo, perchè Calvino parte da uno sconclusionato episodio (una persona si accorge di aver comprato un libro nel quale sono saltate alcune pagine) per trascinarci in un gioco nel quale inizia di fatto 10 diversi romanzi e alla fine dimostra che mettendo assieme i vari titoli ne esce addirittura l’attacco di un romanzo.
Calvino stava evidentemente riflettendo in quel periodo della sua vita (aveva da poco superato i 55 anni) sul suo ruolo di scrittore. Nel finale del libro emerge chiaro che lui una soluzione univoca per definire il rapporto tra autore e lettore non ce l’ha. Educare il lettore non è il
suo scopo e si pone addirittura il dubbio che la lettura ci faccia approdare in una dimensione
staccata dalla realtà, un po’ come il viaggio aereo, che “ci fa sparire da un punto per riapparire in un altro”.
Come succede a Wallace, anche Calvino mostra una maestria quasi inverosimile nell’uso della lingua e la critica colse subito l’importanza di un libro destinato a diventare testo di molti corsi di scrittura creativa. Disciplina in Italia ritenuta allora misteriosa, in America già insegnata ai massimi livelli.
Non a caso Calvino era stato invitato dall’Università di Harvard a tenere un ciclo di lezioni nell’ambito delle Poetry Lectures intitolate a Charles Eliot Norton.
Calvino non tenne mai quelle lezioni, che si sarebbero dovute svolgere nell’autunno del 1985. Lo scrittore morì infatti a seguito di un aneurisma il 19 settembre 1985.
La moglie Judith Singer trasse dalle lezioni un libro, che fu pubblicato postumo come Lezioni americane, secondo l’espressione che Piero Citati usava per definire il lavoro che Calvino stava facendo. In verità, lo scrittore aveva pensato solo al titolo in Inglese: Six Memos for the Next Millennium.

Le lezioni di Calvino sono su leggerezza (“comunicazione tra ciò che è diverso…non ottundendone bensì esaltandone la differenza”), rapidità (“la felicità dell’espressione verbale in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma di regola vuol dire paziente ricerca…”), esattezza (“progetto ben definito, evocazione di immagini visuali nitide, linguaggio il più poreciso possibile…”), visibilità (“tutte le realtà e fantasie possono prendere forma solo attraverso la scrittura”), molteplicità (“per scrivere Bouvard et Pecuchet Flaubert ha letto 1500 libri”). Le lezioni dovevano essere 6 e Calvino ne aveva preparate solo 5. Al libro è aggiunta una sesta lezione sugli incipit e le conclusioni (“la storia della letteratura è ricca di incipit memorabili, mentre i finali che presentina una vera originalità come forma e come significato sono più rari”).
Questo libro non è fiction e non richiede nessun tipo di interpretazione.

Ma che ci sia bisogno di interpretare per forza il testo che stiamo leggendo, non è per niente scontato. Susan Sontag ha scritto in un celebre saggio che “noi ci concentriamo sull’interpretazione del contenuto, ma nessuno pensa che magari il messaggio dell’artista risiede nella forma”.
E nel libro di Lipsky a David Foster Wallace è attribuita l’ardita definizione di “erezione cardiaca” per quello che ha provato leggendo The balloon di Barthelme. Che è un racconto molto provocatorio di uno dei padri del postmodernismo. Scritto in maniera fantastica, The balloon descrive questo enorme pallone che appare non si sa dove (“e non posso dirvi perchè” scrive Barthelme). E quando state iniziando a lanciarvi per trovare un simbolismo nella presenza di questo pallone, Barthelme vi spiazza spiegando esattamente cosa rappresenta per lui.

Quando ho iniziato a scrivere, pensavo che la scrittura fosse solo talento. Ma nel corso degli anni ho verificato che non è solo ispirazione, ma anche (soprattutto) duro lavoro.
Wallace racconta ad esempio che il suo editor gli ha fatto cancellare centinaia di pagine (“Ne toglievo 200, ne riscrivevo 150…”) dal suo monumentale (1200 pagine abbondanti) Infinite Jest e che lui lo ha riscritto a macchina (è uscito nel 1996…) ben 3 volte. Addirittura, la prima volta che l’ha stampato, lo ha fatto con un font di dimensione 9 per farlo sembrare più corto. Mandando l’editor su tutte le furie.
Riscrivere è una cosa che non piace a un autore. E nemmeno l’idea che qualcun altro metta le mani sul suo testo (“Non è che lo potete trattare come un tema di una matricola….” dice Wallace stesso).

Segel/Wallace seguito da Lipsky/Jesse Eisenberg in "The end of the tour"
Segel/Wallace seguito da Lipsky/Jesse Eisenberg in “The end of the tour”

In conclusione: più studio e meno voglio educare il lettore. Vorrei solo che mi seguisse perchè lo porto a conoscere belle storie, possibilmente scritte bene e agevoli da leggere. Ma mi rendo anche conto del fatto che Calvino e Wallace (e molti altri, a cominciare da Stephen King e per proseguire con Isaac Asimov, Heinrich Boell…e mi devo fermare) in effetti mi hanno educato.

Un post scriptum: da Come diventare se stessi è stato tratto il film The end of the tour di James Ponsoldt e con Jason Segel nel ruolo di Wallace. E’ stato presentato da poco al Sundance Festival e fremo per vederlo.

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