Quello degli Indiani d’America non era un “Manifest Destiny”

CINEMA, LETTERATURA, SCHIROPENSIERO, STORIA, Texas e Bahamas 2016-2017, VIAGGI , , , , , , ,

All’inizio era facile: nei film gli Indiani erano cattivi, quasi sempre se la prendevano con le donne e i bambini, e parlavano in modo buffo. Poi un giorno il cinema della Parrocchia di San Giovanni proiettò Soldato Blu. In un primo tempo, mi innamorai perdutamente di Candice Bergen. Poi iniziai a pensare che dovevo saperne qualcosa di più, su questi  Indiani. Qualche decennio dopo arrivano le mie conclusioni.

La prima e unica volta che sono entrato in una Riserva Indiana in vita mia era il 1991 e io ero  negli Stati Uniti in viaggio di nozze. Nella foto di copertina, una versione giovane (ma direi…coerente con l’attuale) di me posa accanto a un busto di Toro Seduto.
Non ho preso appunti e quindi non sono certo di quello che sto scrivendo, ma confrontando il mio percorso di viaggio con la lista che si trova su Wikipedia, ho una ragionevole probabilità di non sbagliare: ero nella Riserva del fiume Colorado, dove vivono circa 7.000 tra Mohave, Chemehuevi, Hopi e Navajo.
Ricordo che si formò una coda lungo la strada sterrata, prima perché una mandria di bovini non ne voleva sapere di spostarsi, poi perché un gruppo di operai stava sistemando come poteva le conseguenze di una mezza frana. Mentre ero in attesa di poter ripartire, mi si avvicinò un uomo giovane e alto, dalla pelle scura. Aveva in mano un badile e mi sorrideva. Così gli chiesi se il benzinaio era lontano. Dopo avergli detto grazie, ricordo che pensai che parlava Inglese con un accento pessimo e che in fondo la sua pelle non era proprio rossa. Seguendo le sue indicazioni, arrivai dal benzinaio. Dopo aver pagato, ricordo la sensazione di fastidio che mi diedero il negozio di souvenir e la popolazione di perdigiorno che ci bivaccava attorno.
Il 27 dicembre del 2003 (qui ho gli appunti) mi trovavo invece ad Alice Springs, nel cuore dell’Outback australiano, e condividevo la descrizione della città fatta da Bruce Chatwin in Le vie dei  canti: “Quattro case in croce e americanizzata…”. Aggiungevo al quadro “un fiume perennemente asciutto” e “diversi aborigeni piuttosto barboni che non rivolgono la parola a noi stranieri, passano il tempo a bere e (va detto) hanno un odore che dà il voltastomaco. La guida si affretta a dire che non è che tutti gli aborigeni siano così. E ci mancherebbe altro…”.
Letto me stesso, devo per forza trattare con indulgenza Mark Twain, quando nel 1872 scrive Roughing it (è il resoconto di un suo viaggio dal Missouri al Nevada attraverso Nebraska, Montagne Rocciose, Black Hills, South Pass e Salt Lake City; è stato tradotto in Italiano nel 1993 da Giulia Arborio Mella per Adelphi con il titolo In cerca di guai) descrive così gli Indiani Goshoot: “L’umanità più sciagurata che mi sia mai capitato di incontrare…carnagione opaca e scura come quella del comune negro americano…sono individui infidi e taciturni…sono assai pigri e, come tutti gli altri Indiani, infinitamente apatici e dotati di un grande spirito di sopportazione; mendicanti privi di dignità…affamati, perennemente affamati, anche se mangiano tutto quello che mangerebbe un maiale…quando domandi loro se credono al Grande Spirito si illuminano in volto pensando che tu ti riferisca al whysky…la mia visione dei pellirosse era un tantino falsata dalla luce pastosa e romantica di certi libri…l’Indiano è un essere subdolo, lercio e repellente…Meritano la nostra pietà , povere creature, e concedo la mia senza alcuna esitazione. Ma da lontano…”.
GlI Indiani Goshoot non esistono (potrebbero essere Arapaho o Ute, visto che li incontra sulle Montagne Rocciose; comunque, un’anticipazione sull’argomento l’inventore di Tom Sawyer l’aveva fornita nel satirico The Noble Redman del 1870) e Twain (al secolo Samuel  Clemens, 18351910) scrive anche per attaccare gli Indiani mitizzati dal lavoro letterario di James Fenimore Cooper (17891851; l’autore di L’Ultimo dei Mohicani, romanzo ambientato durante la guerra Dei Sette Anni , 17561763, tra Gran Bretagna e Francia). Inoltre, non è certo un antropologo che ha fatto chissà quali studi sul campo (l’Università della Virginia sostiene che, mentre scriveva, era solo un child of the frontier e si divertiva a usare la terminologia che aveva ricavato dai libri). Ma siamo comunque in presenza di un colto anglo americano della seconda metà del 1800, pronto a testimoniare la sottomissione di un intero popolo.

Ci sono similitudini notevoli tra il destino degli Indiani del Nord America e quello degli Aborigeni australiani. Per entrambi i popoli il contatto con il colonizzatore bianco è stato fatale. Ma l’eccidio degli Indiani del Nord America ha proporzioni molto maggiori.
Quando gli Inglesi stabilirono la prima Colonia Penale in Australia (1770) gli aborigeni erano circa un milione, divisi in 500 diverse comunità semi stanziali. Oggi sono più o meno 700.000 (molti vivono in zone degradate delle città), ma verso la fine del 1800 erano arrivati a ridursi a poco più di 60.000 (per legge, e fino ai primi anni ’70 del secolo scorso, ai figli di coppie miste era impedito crescere secondo i costumi aborigeni). Fino al 1992, in Australia esisteva anche una legge che qualificava la terra prima dell’arrivo dei coloni come non occupata. Gli Aborigeni sono ancora in attesa della restituzione di terre a suo tempo concesse indebitamente ai coloni europei.
Quando i Padri Pellegrini sbarcarono in Nord America (1620) il numero di Indiani era facilmente attorno ai 14 milioni. A quell’epoca (prendo a prestito una felice espressione di Michael Wallis): “Uno scoiattolo sarebbe potuto andare senza scendere dagli alberi dall’Atlantico al Mississippi”.
C’è da dire che inizialmente un punto di equilibrio per la convivenza era stato trovato. Certo, versando non poco sangue, visto che i primi scontri tra coloni e nativi risalgono a prima dell’arrivo dei Pylgrim Fathers (1607 a Jamestown, Virginia).  La prima pace venne siglata nel 1614 dal matrimonio tra la Principessa Indiana Pocahontas e il colono John Rolfe.
Proprio la guerra Dei Sette Anni, le cui conseguenze porranno poi le condizioni per la Dichiarazione d’Indipendenza del  1776, finì col rompere quel punto d’equilibrio. Prima portò diversi popoli nativi ad allearsi con i Francesi o gli Inglesi, quindi portò la Francia ad appoggiare la causa dell’Indipendenza delle 13 Colonie inglesi.

Un dipinto di George Catlin

L’espansione dei coloni di origine europea verso ovest è stata, come sappiamo inarrestabile. All’inizio del 1800 in particolare, sulla costa est dei futuri Stati Uniti approdavano a migliaia gli immigrati irlandesi (dal 1801 l’Irlanda è ufficialmente parte del Regno Unito), che fuggivano da una carestia e oltretutto parlavano Gaelico, non Inglese. Erano quindi portati a scegliere tra lavori umili, pesanti o mal pagati e il sogno della terra che si trovava a ovest.
Ovest in quegli anni significava oltre il fiume Mississippi e superare il grande fiume voleva dire penetrare nella Nazione Indiana. Qualche incidente si verificò fin da subito, ma i veri problemi iniziarono dopo la guerra tra Gran Bretagna e Unione che durò dal 1812 al 1815 e vide diverse Tribù (in particolar modo i Creek e gli Shawnee) dividersi tra chi sosteneva la causa inglese e chi parteggiava per gli anglo americani.
Con il senno del poi, è evidente che aveva fatto un’analisi più lucida chi si era alleato con la Gran Bretagna. I sudditi di Sua Maestà Giorgio III non avevano nessun interesse a vedere l’Unione espandersi verso ovest e diventare la terza potenza (dopo la Gran Bretagna e la Spagna;  le mire coloniali della Francia in Nord America erano fallite da tempo) a reclamare possedimenti in quella parte del Continente. Ma va compreso anche il sentimento delle Tribù che si erano pacificamente integrate con i coloni, accettandone i costumi. Pushmataha, il Capo Chocktaw  legato a un trattato di pace firmato dalla sua gente con George Washington in persona, ad esempio sosteneva: “Ci hanno portato i telai, insegnato a raccogliere i cereali e insegnano ai nostri bambini a leggere e scrivere”.
Durante la guerra fallì l’importante progetto ispirato da Tenskwatawa, leader religioso Shawnee, che predicava l’abbandono dei costumi dei coloni e il ritorno allo stile di vita ancestrale.  Il fratello Tecumseh era diventato il vero e proprio catalizzatore di un movimento che mirava a unire le Tribù in una Nazione Indiana: “…Tribù che una volta erano potenti si sono sciolte come neve al sole di fronte all’oppressione dei bianchi…”. Il Grande Capo Shawnee enunciò quello che era il vero problema della convivenza tra i nativi e i coloni: per gli Indiani, la terra non andava coltivata: “Le ossa dei nostri morti saranno dunque disperse dagli aratri?”
Tecumseh morì in battaglia nel 1813, combattendo (con i suoi Shawnee e la fazione dei Creek detta Red Sticks) a fianco della Gran Bretagna e contro l’Unione di Andrew Jackson, Sam Houston e Davy Crockett.  Aveva circa 35 anni.

La morte di Tecumseh convince il Capo dei Red Stick Creek Red Eagle a consegnarsi agli anglo americani. Andrew Jackson lo utilizzerà come intermediario per concludere un trattato (1814) che gli permetterà di acquisire per conto del Governo dell’Unione larghe porzioni di territorio Creek (93.000 chilometri quadrati, quasi l’intero territorio delle odierne Alabama e Georgia). Red Eagle convincerà i Red Stick a cedere persino i loro territori a Jackson. Avrà salva la vita e successivamente verrà conosciuto come William Wetherford.
La terra veniva offerta ai coloni. Per far fruttare un land grant, il colono doveva coltivare almeno un acro (cioè 4.000 metri quadrati) e costruire una piccola casa. In caso contrario, la terra sarebbe tornata al Governo. Libero poi di venderla, a prezzi che i coloni non si potevano permettere, a speculatori come Jackson.
Andrew Jackson (17671845) era convinto che gli Indiani andassero sottomessi. Li considerava incivili e ingenui. Sosteneva che andassero “guidati” e approfittava di questo. Nel 1816, dopo aver acquisito enormi porzioni di territorio Cherokee semplicemente promettendo un rapporto “duraturo e pacifico” con gli Stati Uniti, scrive al Presidente Monroe:  “Ho sempre pensato che fare trattati con gli Indiani sia assurdo”.
Una volta Presidente (eletto come sappiamo nel 1828), farà approvare l’Indian Removal Act (1830) di cui parlavamo nel precedente articolo. Il primo atto fu il trattato di Dancing Rabbit Creek, che portò alla cessione di 15 milioni di acri, che andranno a formare lo Stato del Mississippi, da parte dei Choctaw. In cambio gli Indiani ricevettero 11 milioni di acri nell’attuale Stato dell’Oklahoma. La migrazione del popolo Choctaw diede inizio al Trail of Tears (cammino delle lacrime).
Dal punto di vista dei Choctaw, Andrew Jackson è un personaggio paragonabile ad Adolf Hitler. Se visitate l’Oklahoma, vi capiterà certo di vedere banconote da 20 dollari nelle quali qualcuno ha cancellato il volto di Jackson con una X. Lo Stato dell’Oklahoma ha in effetti più volte chiesto ufficialmente di togliere il volto di Jackson dalle banconote. Nel 2020 la richiesta sarà accontentata: il viso di Harriet Tubman (nata schiava come Araminta Ross nel 1822, fuggì nel 1849 e fu personaggio fondamentale nella lotta per il suffragio femminile) sostituirà quello di Jackson sulla banconota.

Un ritratto di Andrew Jackson

Subito dopo il Removal Act (precisamente nel 1831) George Catlin (17961872; secondo lui, la legge appena approvata è “una crudeltà”) inizia una serie di viaggi lungo la Frontiera che gli permetteranno di condensare la sua esperienza (“quello che ho visto con i miei occhi, delle persone e delle loro abitudini”) in una serie di lettere che rappresentano una testimonianza unica di come vivevano gli Indiani in quegli anni. Lo scrittore e naturalista Peter Matthiessen (19272014) le ha editate e raccolte in un volume che si intitola North American Indians ed è stato stampato (1989) in edizione tascabile da Penguin. Bompiani ne ha curato una traduzione (A.Paleari) nel 2005 con il titolo Il popolo dei pellerossa. Usi, costumi, vita nella prateria degli indiani d’America. Il libro è disponibile
Catlin, che pure distingue la gente “civilizzata” dagli “Indiani”, è molto lucido nel prevedere quel che effettivamente succederà: “Oggi ci sono 400-500.000 Indiani che vivono allo stato primitivo, mentre un milione e mezzo è semi civilizzato, ma sono destinati alla distruzione”. Catlin intende “del loro modo di vita” ed è per fortuna troppo catastrofico quando prevede “l’estinzione” di questo popolo. Le sue parole suonano comunque come un monito che va ascoltato con attenzione: “…se si estinguessero per mano nostra, e allo scopo di consentirci di possedere la loro terra, verrebbe sovvertita la più semplice legge della natura e l’uomo bianco, con tutte le virtù di cui si vanta, si trasformerebbe da essere civilizzato in meno di un barbaro selvaggio…”.
Catlin descrive con dovizia di particolari l’aspetto degli Indiani (“…quasi completamente privi di carne in eccesso, hanno ossa più leggere di noi e hanno muscoli meno forti, a parte nelle gambe…hanno nasi prominenti e aquilini e denti regolari, che conservano fino in tarda età…la barba non l’hanno….”) ed espone anche qualche teoria curiosa (sarebbero di origine Ebrea).  Dice anche, e senza mezzi termini, che l’alcol (“bevono in quantità esagerate, perché i bianchi li incoraggiano a farlo e loro guardano ai bianchi come esempio”) e il vaiolo sono destinati a decimare la popolazione e che gli Indiani si fanno truffare dai commercianti senza scrupoli.
Da una lettera emerge anche che gli Indiani sono “crudeli” con i nemici (praticano la tortura e tolgono in effetti lo scalpo ai caduti del nemico), ma Catlin osserva che le punizioni sono sempre conseguenze di determinati atti e sentenzia: “A livello di moralità, non abbiamo niente da insegnargli”.
Influenzato dalle teorie illuministe, Catlin definisce Teismo  il loro credo religioso (“Credono nel Grande Spirito perché gli è stato rivelato”), lasciando capire che lui crede, ma secondo la versione del Deismo (Dio ha creato il mondo, noi dobbiamo però trovare conferma di questo attraverso la scienza).
Liquida in poche parole la forma di Stato della Nazione Indiana: “Ogni Tribu ha un Capo, al quale succede il figlio maggiore, a meno che non venga considerato indegno…”).

Il Removal Act del 1830 non sarà il peggio per la Nazione Indiana. Come detto, l’espansione anglo americana verso ovest non sarà contenibile. Ai coloni si aggiungeranno (dal 1848 circa) i cercatori d’oro e d’argento diretti in Nevada. Territori concessi agli Indiani verranno reclamati per la necessità di costruire la ferrovia. Il Presidente Abraham Lincoln firmerà nel 1862 il cosiddetto Homestead Act, una legge che assegna a chi ne fa richiesta 160 acri nelle terre selvagge.  Questo forzerà ancora di più la convivenza tra Indiani e coloni e, soprattutto, entrerà in conflitto con gli accordi firmati a suo tempo dalla Nazione Indiana con Jackson.
Nel  1864, in seguito a controversie nate per un furto di bestiame, la milizia statale uccise 600 persone (quasi tutte donne e bambini) in un villaggio di Cheyenne e Arapaho nei pressi del fiume Big Sandy Creek (oggi Contea di Kiowa, Colorado dell’est) in quello che passerà alla storia come il Massacro di Sand Creek. Il Generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, si espresse così: “È forse l’atto più vile ed ingiusto di tutta la storia americana”.
Al film Soldato Blu che narra quegli eventi ho già fatto riferimento. Sotto trovate il trailer.

I cacciatori bianchi, armati molto meglio dei  nativi, si specializzarono nella caccia al bisonte (che chiamavano buffalo) e ridussero in meno di 20 anni la popolazione di questo animale, fondamentale per la sopravvivenza degli Indiani e stimato in 700.000 capi a inizio secolo, a poco più di 600 esemplari.
Decretata impossibile la convivenza, il Governo degli Stati Uniti finì con il confinare gli Indiani in Riserve. Ma quando i cercatori d’oro invasero le Black Hills, Riserva dei Lakota (meglio conosciuti come Sioux) nell’attuale Sud Dakota, alle Tribù Indiane non restò che andare sul piede di guerra. Ai Capi Sioux Toro Seduto (Tatanka Yotanka, Tribù Hunkpapa) e Cavallo Pazzo (Tashunka Witko, Tribù Oglala), che decisero di non rispettare l’ultimatum del Presidente Grant, si unirono Cheyenne, Arapaho e altre Tribù.
L’episodio più celebre di questa rivolta è certamente la battaglia di Little Big Horn (a 8 chilometri dall’attuale Crow Agency, Montana) , nella quale persero la vita oltre 200 soldati e il loro Comandante George Custer.
Ma l’illusione di realizzare il sogno di una Nazione Indiana unita che Tecumseh aveva coltivato oltre mezzo secolo prima durò poco. Gli Stati Uniti dichiararono una guerra senza quartiere agli Indiani. Crazy Horse (1877) e Toro Seduto (1890, ma era prima scappato in Canada e poi finito nel circo di Buffalo Bill) morirono in circostanze dubbie, dopo essersi di fatto arresi.
A fine dicembre 1890 i Sioux Miniconjou del Capo Piede Grosso si mossero verso l’accampamento degli Oglala di Nuvola Rossa. Forse volevano reagire alla morte di Toro Seduto. Circondati dalla Cavalleria nella valle del torrente Wounded Knee (Sud Dakota), vennero disarmati. Quando a un giovane guerriero partì accidentalmente un colpo di fucile, i militari statunitensi aprirono il fuoco. L’episodio, che segna la definitiva fine della ribellione Indiana, passò alla storia come Massacro di Wounded Knee.

Oggi negli Stati Uniti vivono (ovviamente non solo nelle Riserve) oltre un milione e mezzo di Indiani, che parlano 100 lingue diverse. La popolazione di bisonti è risalita a 500.000 capi, che però vivono esclusivamente nei Parchi Nazionali. Gli animali simili ai bisonti che si vedono nelle fattorie sono ibridi (sono incroci con le mucche, nati fertili) che hanno dato vita a una nuova razza detta beefalo (sono allevati per la carne, che è molto buona e priva di colesterolo…).
L’espansione a ovest degli anglo americani venne a suo tempo ritenuta ineluttabile secondo il concetto del Manifest Destiny, teorizzato proprio da Andrew Jackson, che aveva come prima conseguenza la sottomissione dei nativi. Alexis DeTocqueville, che arrivò in America nel 1831, aveva avuto chiara l’impressione della direzione che il Nuovo Mondo era destinato a prendere. In La Democrazia in America scrive: “I miracoli della natura lasciano gli americani freddi, si potrebbe quasi dire che si accorgono delle meravigliose foreste che li circondano solo quando gli alberi cadono sotto i colpi dell’ascia. Gli americani si immaginano in marcia attraverso la natura selvaggia, si vedono mentre asciugano gli acquitrini, deviano il corso dei fiumi, popolano le terre disabitate e sottomettono la natura”.

Un’ultima riflessione. Oggi sarebbe facile trovare molti sostenitori del Manifest Destiny. Gli stessi che non trovano nulla di strano nel sapere che degli immigrati (i coloni anglo americani) hanno sottomettesso i nativi di un intero Continente (gli Indiani), si rivelerebbero poi gli stessi capaci di sostenere l’ognuno a casa sua sbandierato dai Trump, LePen e Salvini.
Sia i coloni di allora che i tromboni di oggi si definirebbero senz’altro Cristiani. Senza aver evidentemente ben compreso quel che Gesù Cristo predicava e che il Vangelo riporta in ben 4 versioni. Ma se il Vangelo è troppo moderno, potrebbero accontentarsi del Vecchio Testamento. E di quel concetto semplice: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso”.
Per chiudere la riflessione uso il testo di una canzone di Paul Weller (All Good Books): “If Jesus could hear us now/Bending all his words/Of which he’s proud” (Se Gesù ci potesse sentire oggi/Interpretare male le parole/Di cui era così fiero…”)

Il prossimo capitolo è dedicato al Sea World e a una riflessione sugli spettacoli che coinvolgono gli animali

9-CONTINUA