Quel che resta della cultura Masai

FICTION E PROGETTI EDITORIALI, Kenya, Tanzania e Zanzibar 2013-2014, le mie bestie, VIAGGI

Alle 7.30 della mattina del 16 dicembre un certo Justus ci ha accolti alla reception del Fairview Hotel di Nairobi e consegnato nelle mani di Isaac, un kenyota di origine etiope che parla un decente Italiano (ma capisce tipo il 20% di quel che gli dici) e che guida un pulmino a 6 posti con la scritta Private Safari. Siamo diretti al parco Amboseli e Isaac, dopo una non facile uscita da una Nairobi davvero trafficata, imbocca la strada per Mombasa, che è poi anche quella che porta in Tanzania.

C’è stato un giorno in cui il Kenya era il paese con più animali d’Africa, ma quel giorno è lontano. Anche se a pochi chilometri da Nairobi c’è il parco nazionale che porta il nome della capitale (istituito dagli Inglesi nel 1946) nel quale vivono ancora i leoni e gli elefanti, la concentrazione di animali è parecchio calata rispetto agli anni d’oro. Guidando nella cosiddetta Makhakos Land capita comunque facilmente di incrociare zebre e giraffe che brucano ai lati della strada. L’animale più pericoloso qui è comunque il classico camion che procede a velocità non normali. Ne incrociamo uno che è appena finito in un fosso e Isaac commenta: “Mamma mia”.

Una madre allatta un piccolono babbuino all'Ol Tukai
Una madre allatta un piccolono babbuino all’Ol Tukai

Amboseli è uno dei luoghi al mondo dove è più facile osservare branchi interi di elefanti. E’ inoltre il posto al mondo dove si ha la miglior visione del maestoso Kilimangiaro. Peccato che la vetta sia perennemente, o quasi, incappucciata dalle nuvole.
“Questa mattina si vedeva benissimo” ci dice il tizio dell’accoglienza del lussuoso Ol Tokai, il lodge dove pernottiamo circondati da cercopitechi e babbuini. Nonostante la buona volontà, non riusciremo a vedere la vetta del Kilimangiaro se non dall’aereo che da Zanzibar ci ha portati a Nairobi il 6 gennaio.

Per tenere le scimmie lontane dai turisti, l’Ol Tukai ha ingaggiato alcuni giovani Masai (li chiamano Moran, giovani guerrieri) armati di fionda.
Avevo notato che, tra i vari oggetti inutili che i Masai cercano di venderti appena possono, c’erano queste fionde e mi chiedevo cosa ci facessero. L’immagine mitica di popolo guerriero che mi ero fatto, me li presentava con lance e scudi. Ma lungo la strada avevo visto più che altro dei vu cumprà molto aggressivi e qualche pastore. Così, quando Isaac ha proposto la visita al villaggio Masai per 50 euro, ho accettato con un certo entusiasmo.
Stando alla loro tradizione orale, i Masai hanno risalito il grande burrone (ovvero, la zona del lago Turkana fino agli altipiani). La loro origine dovrebbe in verità essere la Valle del Nilo e la loro abitudine a spostarsi deriverebbe dal contatto con i primi arabi arrivati fin sugli altipiani dell’Africa orientale nel 1400. Gli stessi arabi sarebbero i responsabili dell’alone di leggenda che circonda un popolo che guerriero non lo è veramente mai stato. O meglio: i Masai usavano attaccare altri clan per razziare il bestiame e avevano la barbara abitudine di uccidere tutti i prigionieri. La loro vita si svolge in assoluta simbiosi con il bestiame che allevano e che solo raramente macellano. La base della loro alimentazione è una bevanda (Mursik) fatta di latte e sangue di bestiame. Ampliare una comunità, fa dunque vivere tutti peggio.
Gli arabi parlavano di feroci guerrieri per scoraggiare l’esplorazione dell’interno. In verità, i Masai hanno solo sofferto, per il colonialismo e l’unica azione armata contro i bianchi fu una spedizione punitiva verso un gruppo di Inglesi che avevano ucciso alcuni dei loro buoi. A fine 1800 il vaiolo e la siccità (non una goccia di pioggia, tra 1897 e 1898) decimarono bestiame e popolazione e un paio di trattati (1911 e 1941) li privarono di buona parte della terra.
I Masai che vivono in Kenya sono oggi una ridottissima percentuale della popolazione e sono costretti ai margini dei parchi (dai quali sono stati espulsi) e certo non sono in una condizione particolarmente prospera, perché il terreno più fertile è stato requisito dalle aziende agricole. Ai margini dei parchi kenyoti oltretutto i Masai entrano in conflitto con i leoni più anziani o magari deboli perché feriti o sconfitti nelle lotte tra maschi, che escono dal parco per cacciare prede facili come il bestiame. Ovviamente, i Masai proteggono il loro bestiame e cacciano i leoni. Considerato che fuori dalle aree protette i leoni hanno il destino segnato (gli allevatori preparano trappole avvelenate), è nata per proteggerli una benemerita associazione di 7 scienziati che si chiama LIVING WITH LIONS e che ha coinvolto 34 guerrieri Masai nel progetto LION GUARDIANS. In pratica, i leoni che escono dalle aree protette vengono monitorati e segnalati ai Masai, che così possono evitarli senza ucciderli.
Ormai sta in effetti anche scomparendo l’abitudine alla prova di coraggio della caccia al leone durante l’iniziazione dei guerrieri, altra icona della leggenda Masai.

Foto ricordo con i Masai
Foto ricordo con i Masai

Steve è il figlio del Capo del villaggio Masai che visitiamo e ci accoglie sorridente ed esprimendosi in un Inglese dal vocabolario semplice ma corretto. E’ coperto da una tunica rossa e si appoggia a un bastone. Ha ai piedi dei sandali ricavati dai copertoni delle auto. Al contrario di altri Masai, Steve non ha monili alle orecchie. Ci spiega che il lobo allungato è tipico delle persone che non usciranno mai dal villaggio.
Steve ha studiato a Nairobi, ottenendo un diploma corrispondente alle scuole medie. Ha circa 30 anni e spera di trovare “uno sponsor” per ottenere un titolo di studio superiore. Ci spiega brevemente che, dopo l’iniziazione, i Masai diventano guerrieri (Moran, come abbiamo detto), poi giovani anziani e quindi anziani. Gli anziani sono quelli che comandano.
La danza di benvenuto Masai (Adamu) si esplicita in alcuni salti impressionanti sul posto. Ero partito molto ben disposto nella visita, ma la danza e successiva foto di gruppo (io con i maschi, mia moglie con le donne) mi fa perdere buona parte dell’entusiasmo. L’impressione è quella di uno spettacolino preparato.
La visita prosegue con una preghiera collettiva. I Masai credono in Enkai, un unico Dio che comunica con la tribù tramite l’Oloibon, lo stregone.
La dimostrazione di come si accende il fuoco è interessante. Mi chiedono se voglio provare io, ma mi astengo: avremmo rischiato di fare notte. Strofinano ovviamente legno su legno (come insegna anche il Manuale delle Giovani Marmotte) e poi usano gli escrementi essiccati di animale come combustibile. In pochi minuti, la fiamma è viva. Certo, con i fiammiferi avrebbero fatto prima…
Entro in una capanna Masai, che ha pareti fatte di escrementi di mucca e fango, ricoperte da rami e impermeabilizzate con la pelle di mucca. Le donne costruiscono queste abitazioni (che durano circa 7 anni) e chi ha più mogli (ma oggi è difficile permetterselo; dice Steve: “Dipende da quante mucche hai, perchè devono dar da mangiare a tutti”) vive di conseguenza in più case. All’interno c’è un perenne odore di fumo, perché il fuoco viene acceso per fare luce e riscaldare. Ogni capanna è fatta di una stanza comune e delle stanze da letto per la coppia e per i figli. Per entrare mi devo piegare in 2 e, davvero, faccio fatica a concepire che si possa vivere in queste condizioni sul serio.
Il figlio dello Sciamano ci illustra le loro tecniche medicinali, basate sulle erbe: “Esiste anche il Viagra Masai” dice beffardo. Poi si fa più serio e spiega che nel villaggio le donne non sono più sottoposte alla mutilazione del clitoride. E’ un bel passo avanti.
Esco dalla capanna e penso che questa vita in simbiosi con la natura la nostra cultura la rifiuta da millenni: già gli antichi Greci vivevano lontani dalla natura. Steve mi fa vedere che nel villaggio c’è un recinto per il bestiame e che hanno realizzato un cancello con dei rovi per proteggere il villaggio dai predatori.

Alcuni piccoli Masai si fanno fotografare
Alcuni piccoli Masai si fanno fotografare

Isaac mi aveva avvertito che i Masai non usano più il sistema del baratto: “Ora vuole soldi”.
Steve mi porta a un mercatino nel quale ci sono decine di venditori e l’unico compratore sono io. Cerco di essere gentile nel dire che non mi interesse niente ma che comprerò qualcosa per solidarietà. Ovviamente, non qualcosa da tutti i venditori. Al che Steve se ne esce con una frase che non mi piace tanto: “Allora vai alla bancarella della mia famiglia”.
Prendo un braccialetto, una collana, un paio di posate per insalata in legno, un bruttissimo segnalibro. Il tutto con mia moglie che mi intima di smettere di comprare. Steve annuncia che farà lui un prezzo unico: 85 euro. Gli chiedo se è impazzito e la risposta è drammatica: “Siamo africani, lo sai che il primo prezzo va contrattato”.
Ci accordiamo sul 30 euro e la banconota da 10.000 scellini della Tanzania (altri 5 euro) che ho in tasca, dopo un paio di ribassi miei e di loro offerte fatte segnando sulla pelle la cifra con un bastoncino (essendo neri, viene spontaneo…noi dovremmo usare del carbone). Steve mi vede piuttosto insofferente e continua a chiedere se sono “happy”.  Sono ancora meno “happy” dopo che ci organizzano l’ennesimo spettacolino: entriamo in una scuola e c’è un gruppo di bimbi di età diverse che recita una poesia basata sui numeri e i giorni della settimana in Inglese (mi ricorda il mio primo test d’Inglese in quinta elementare).

Steve torna con noi all’Ol Tukai per cambiare gli euro in scellini, ma non lo fanno entrare. Anzi, la guardia lo tratta malissimo.
Rifletto: come sono andati a finire, i Masai? Il loro rifiuto della civiltà si è riconvertito verso questa moderna forma di accattonaggio. Che, anche considerando la situazione difficile in cui vivono, è certamente molto umiliante.
Anche nell’area di conservazione di Ngorongoro (in Tanzania; ci vivono 40.000 Masai e la situazione è molto più agevole grazie all’abbondanza di bestiame), non si può fermare la macchina senza evitare che arrivino bimbi o giovani appena iniziati (con tanto di pittura in viso) Masai pronti a farsi fotografare per soldi. Nei lodge della zona, non potete spostare la valigia di un metro che arriva un inserviente Masai e ve la trasporta lui, salvo poi lamentarsi se la mancia è troppo bassa.
In Tanzania, comunque e almeno, nessuno ha mai pensato di togliere le terre ai Masai che, come recita un comunicato del Governo: “Ne hanno buona cura da tempo immemorabile”.

IL VIDEO DELLA VISITA AL VILLAGGIO