Alle Maldive sono riuscito a riflettere sulla Rivoluzione d’Ottobre

Maldive, POLITICA, STORIA, VIAGGI

Come dicevo, alle Maldive si ha un sacco di tempo per leggere. Mi ero giusto tenuto per l’occasione un numero speciale di MicroMega sui 100 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Mi ci sono scatenato su per giorni.

Per me Karl Marx e Friedrich Engels sono 2 omoni severi con la barba grigia. Per me e per tutti, visto che quelle con il barbone sono le uniche immagini di loro che circolano. Però faccio fatica a immaginarmi Marx e Engels bambini e senza barba. Faccio anche fatica a immaginarmeli quasi trentenni, l’età che avevano quando hanno prodotto i loro testi sul Comunismo.
A Marx ed Engels sono ancora grato perché in quinta Liceo mi fecero ottenere un clamoroso 8 in Filosofia che non avevo assolutamente meritato. Lo ottenni solo perché ero stato l’unico della classe ad arrivare in fondo a La concezione materialistica della Storia. L’avevo potuto dimostrare citando il fatto che “i proletari, per affermarsi personalmente, devono abolire la loro propria condizione di esistenza quale è stata fino a oggi”. Era a pagina 113, la penultima escluse le note. E, mentre facevo la citazione e portavo a casa il mio 8, giungevo alla conclusione che non volevo essere “proletario”, visto che di Marx ed Engels mi fidavo, ma non al punto da “abolire” la mia “condizione di esistenza”. In fondo, non mi dispiaceva.
A pagina 114 Marx ed Engels ne dicevano una (dal mio punto di vista) ancora più grossa: che i proletari “devono rovesciare lo Stato per affermare la loro personalità”.

Karl Marx (destra) e Friedrich Engels

Questo libretto e del 1845-1846. Di un paio di anni dopo è il Manifesto del Partito Comunista. Che a scuola però non ci fecero leggere.
Me lo procurai comunque e mi ci avventurai. Non sono per natura un rivoluzionario, ma avevo già capito da solo che “rovesciare lo Stato” aveva a che fare con la Rivoluzione. E questo era il primo motivo che mi impediva di essere Comunista: non volevo fare nessuna rivoluzione. Ero anche poco convinto del concetto di “dittatura del proletariato”. Ero insomma quello “studentucolo che sa un po’ di Storia” che, secondo Antonio Gramsci (Socialismo e Cultura), credeva di essere “diverso e superiore anche al miglior operaio specializzato” anche se questi “adempie nella vita a un compito ben preciso e indispensabile”.

Ma se era da dare per assodato che non ero comunista io (come ho già motivato su questo sito), con che coraggio si definivano comunisti i leader dell’Unione Sovietica? Stando a Marx ed Engels, dopo la rivoluzione doveva iniziare una fase di transizione (detta “dittatura del proletariato”, appunto). Superata ogni forma di Stato, si entrava nel Comunismo. E onestamente, non mi sembrava proprio che in Unione Sovietica questo “superamento” si vedesse. Anzi, lo Stato Sovietico lo trovavo ben forte. Ma forse era perché la fase di “transizione” (a un 65 anni dalla Rivoluzione…ma Marx, dopo tutto, ha sempre parlato di “transizione a lungo termine”) era ancora in corso. Chi lo sa. Di certo, che nella società Sovietica non ci fossero le “classi” era difficile da credere.

Karl Marx (classe 1818: al tempo del Manifesto, come detto, era un fresco trentenne) è morto nel 1883 a Londra. Friedrich Engels (classe 1820) è morto nel 1895 a Londra.
Valdimir Ilic Uljanov detto Lenin è nato nel 1870. Lui marxista lo è stato prima di leggere Marx (e forse senza neanche leggerlo bene; diciamo: capendo quel che voleva capire…un po’ come molti pseudo marxisti che conosco io). Precisamente dopo che nel 1887 il fratello Alexander era stato impiccato perché riconosciuto colpevole di aver organizzato un attentato allo Zar Alessandro Terzo.
Lenin non era neanche in Russia quando è caduta la Monarchia con la cosiddetta Rivoluzione di Febbraio, un “moto spontaneo di popolo” aiutato dal fatto che l’esercito finì con il non obbedire agli ordini di repressione. Questo portò lo Zar Nicola Secondo ad abdicare.

Lenin era decisamente in Russia quando i bolscevichi presero il potere a ottobre. Per qualche mese la Russia era stata retta con un precario equilibrio tra il governo provvisorio (diciamo borghese) e i Soviet, sostanzialmente i Consigli dei lavoratori (e degli agricoltori e dei soldati). I bolscevichi erano la parte maggioritaria dei Soviet, contrapposti ai menscevichi (minoranza).
La presa del potere dei bolscevichi ha una sua narrazione ufficiale (I 10 giorni che sconvolsero il mondo di John Reed) e una più ufficiosa (Six Red Months in Russia di Louise Bryant, che era la moglie di Reed).
A leggere la narrazione della Bryant (riassunta da MicroMega), la presa del Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi ne ha più del comico che del tragico, con tutti gli ex Allievi Ufficiali dell’Esercito dello Zar che pronunciano frasi melodrammatiche (“terrò per me l’ultima pallottola”), salvo poi arrendersi alla prima occasione. Quello della Bryant è un testo molto criticato e accusato di superficialità (da Rosa Luxembourg, che dirà: “La Bryant non è comunista, va a letto con un comunista…”), ma che rappresenta comunque una cronaca in presa diretta difficilmente accusabile di essere gonzo journalism. Non è un trattato di Storia, questo no.
La vita di Reed e della Bryant è narrata nel film Reds di e con Warren Beatty.

Rosa Luxembourg comunque ne aveva anche per Lenin: “Ha lo spirito sterile del guardiano notturno”.
Per essere un ideologo, Lenin aveva una formazione particolare, visto che si era laureato in Giurisprudenza. E anche dal punto di vista del Diritto, aveva una visione abbastanza peculiare, visto che nel 1921 proclamò il divieto di fazioni all’interno del Partito.
Nel frattempo, aveva fatto uscire la Russia dalla Prima Guerra Mondiale (marzo 1918), provocando la caduta del fronte orientale alleato, e fatto dire ad Antonio Gramsci (1919) che aveva “rinnegato Marx”.
Ma Lenin, secondo me, non aveva rinnegato nessuno. Semplicemente, pensava che il modo migliore per far funzionare il governo dei Soviet fosse quello di lasciar decidere un po’ tutto a lui.
Gramsci scrisse anche “i fatti hanno superato le ideologie”. Cosa che probabilmente Marx non avrebbe personalmente sottoscritto. Dopo tutto, buona parte del suo filosofare era teso a distruggere l‘Idealismo di Hegel per imporre il Materialismo.

Lenin e il suo alleato Lev Davidovich Brohnshtein (Trotzky o Trockij, come scrive MicroMega e come probabilmente si dovrebbe; di 9 anni più giovane) avevano poco tempo per preoccuparsi delle letture, visto che dovevano combattere (loro i Rossi) una Guerra Civile scatenata dai controrivoluzionari Bianchi.
Lo stress giocò un brutto scherzo a Lenin, che fu colpito (1922) da un ictus. Per quel tempo, era già entrato in conflitto con Trotzky sulla gestione della crisi economica. Trotzky riteneva che alla base di tutto ci fosse una “mancanza di programmazione”, senza rendersi conto del fatto che in una “dittatura del proletariato” che vuole “superare lo Stato”, programmare non è poi così facile o scontato.

Lenin (a sinistra) e Stalin

Lenin, dopo aver sofferto un secondo ictus nel 1923, morì nel 1924. A raccogliere la sua eredità fu Iosif Vissarionovic Dzugasvili, che passerà alla storia come Stalin.
Quasi coetaneo di Trotzky, Stalin lo avvertirà da subito come pericolo. Bollerà il suo concetto di rivoluzione permanente come “pericoloso bonapartismo” e finirà con il farlo espellere (1927) dal partito. Trotzky andrà in esilio nel 1928.
Ma di Stalin e Trotzky parlerò ancora in un secondo (inevitabile) articolo.

Ora mi preme citare un altro dei critici di Lenin. Un trentenne agitatore politico italiano di nome Benito Mussolini. Mussolini odiava Lenin (ritenendolo un “ingannatore”), eppure le similitudini tra i 2 sono impressionanti.
Mussolini nacque come socialista anti clericale (in questo ispirato dal padre Alessandro, che riteneva Dio “una convenzione borghese”). Come Lenin, iniziò la sua attività all’estero (precisamente in Svizzera, dove era apprezzato fino lì; tornò in Italia perché espulso) e come Lenin vedeva con simpatia l’unione dei cittadini. Il concetto di Fascio non è suo. I Fasci erano l’arma dei cosiddetti Littori, praticamente guardie del corpo dell’Imperatore di Roma. Erano bastoni tenuti assieme da fascie di cuoio. In Italia (ma anche in Francia) il Fascio era molto piaciuto come simbolo. Dava un’idea chiara della forza dell’unione, tanto che fu il socialista Andrea Costa (quando Benito era ancora nella culla) a fondare il Fascio della Democrazia.
Mussolini era come sappiamo un eccellente oratore, ma aveva idee piuttosto confuse. O meglio: amava confondere i concetti, tanto che i socialisti finirono con il considerarlo un traditore. Il giovane Mussolini predicava una terza via, rispetto al socialismo e al capitalismo, che non era altro che un vero e proprio minestrone di concetti. Per dire, sul ruolo dell’Italia nella guerra aveva cambiato idea un giorno sì e l’altro pure e si definiva “nazionalista”. Comunque, diceva pubblicamente che la terra doveva andare ai contadini ed era assolutamente contrario alla proprietà privata. Mussolini non è mai stato “di destra”. E sarebbe perplesso nel vedere chi oggi inneggia al suo nome alleato politicamente con un multi miliardario e gli ultra conservatori cattolici.
Con Lenin, Mussolini aveva in comune anche altro: a decidere, alla fine, doveva essere lui. E solo lui.

Un giovane Benito Mussolini

Quando Mussolini fondava i Fasci di Combattimento nel 1919, l’economista britannico John Maynard Keynes sapeva essere profetico su un altro punto: “Se diamo per scontato che la Germania debba essere tenuta in miseria, se miriamo all’umiliazione dell’Europa centrale, la vendetta non tarderà”.
In Germania era appena fallita la rivoluzione (SpartkusAufstand, sollevazione spartachista), che aveva però avuto un effetto: era caduta la Monarchia Costituzionale. Era stata contestualmente approvata la Costituzione della Repubblica di Weimar, che preparerà la strada a una ben più tragica rivoluzione.

Prima di prendere ad esempio e a modello i personaggi che hanno fatto la Storia di quegli anni, bisogna pensare al fatto che noi non riconosceremmo il mondo, se fossimo catapultati a un secolo fa. Il panorama del dopo guerra era quello di una società devastata nei Paesi sconfitti e di una società delusa in quelli vincitori.
L’Italia era un Paese di contadini, molti di questi analfabeti, che si era illusa di diventare ricca con la vittoria bellica. Era la seconda delusione in pochi decenni: a fine 1800, gli italiani si erano illusi di diventare ricchi colonizzando l’Africa Orientale. Nessuno aveva spiegato ai futuri coloni che non andavano a civilizzare nessuno, bensì stavano per attaccar briga con un Impero dotato di un esercito più preparato del loro.

L’Italia del 1919 era un Paese nel quale c’era risentimento verso chi si era arricchito con la guerra. Era un Paese che voleva il cambiamento.
Anche la Russia del 1917 voleva il cambiamento e anche la Germania della Repubblica di Weimar voleva il cambiamento.

Chi il cambiamento ha promesso, e certo in buona sostanza anche ottenuto, non era né di destra né di sinistra. Interpretava solo il suo tempo al fine di coronare la propria ambizione: comandare.

Con il prossimo articolo, riprendiamo da qui: “Le tradizioni rivoluzionarie sono state infangate dai Partiti Comunisti ufficiali in modo vergognoso”. Lo scrive MicroMega, che certo non può essere accusata di revisionismo
E dal fatto che non c’è rivoluzione che non imploda. Per finire quindi con il riproporre il governo dei pochi.

4-CONTINUA