C’è una espressione in Swahili che è meglio far finta di non capire: “M’bali kidogo”. Più o meno, vuol dire “Manca poco” e siete destinati a sentirla ogni volta che chiedete una indicazione stradale.
Chiedere indicazioni è, in effetti, l’unico modo possibile di viaggiare in Tanzania, visto che i cartelli stradali sono quanto meno rari e non proprio precisissimi. Le persone che si incontrano lungo la strada sono decisamente gentili, ma quando dicono “M’bali kidogo” bisogna mettersi d’accordo su cosa significa kidogo. Che, dal punto di vista letterale, dovrebbe voler dire leggermente. Ma quando si parla di distanza è meglio prenderlo come un non saprei. Diciamolo: in Tanzania non sempre si riesce a sapere di preciso quanta strada si deve percorrere e avere una direzione è già qualcosa.
Subito dopo il cancello Naabi Hill, al parco nazionale Serengeti c’è una specie di centro visitatori dove si aggirano dei ragazzi molto giovani e molto desiderosi di aiutarvi, ma senza un’idea di come farlo.
Da turisti fai da te, avevamo in effetti un certo timore di aver problemi a raggiungere il campo tendato Kati Kati e questi ragazzi il timore lo fanno certamente crescere dicendo che: “I campi tendati non stanno fissi”.
Il mio ragionamento è che non lo avranno mica spostato in questi giorni. Che è logico, ma non è che da queste parti la logica vada proprio data per scontata.
Le istruzioni in nostro possesso dicono di arrivare alla pista di atterraggio di Seronera e girare a sinistra al ponte. Ma non dicono se il ponte è prima o dopo la pista di atterraggio. Così la superiamo, ci innervosiamo, torniamo indietro e poi capiamo che il ponte è all’altezza di uno spiazzo colonizzato dai babbuini. Che non si formalizzano quando scendo per fare pipì. E’ un’operazione che compio con una certa agitazione. Perché è vero che con tanti babbuini (inclusi alcuni piccoli di pochi mesi) che ostentano tranquillità è difficile che ci siano predatori nei dintorni, ma insomma non si sa mai.
La certezza è che, dopo aver girato, dobbiamo tenere le colline a sinistra. A un certo punto troveremo una statua a forma di leone. O era una roccia. Quel che troviamo, è un cartello stradale a forma di leone. Deduciamo che non è lì che dobbiamo girare, ma da quel punto le istruzioni non corrispondono e forse dovevamo girare proprio lì. Vediamo transitare un’auto e ci fermiamo, chiedendo alla guida (e autista) del campo Kati Kati e ricevendone la poco incoraggiante risposta: “Ce ne sono 6, di campi Kati Kati”. Ma confrontato quel che diceva lui con un appunto dei ragazzi del centro visitatori (andate verso Makama Extra), emerge la sentenza: “Alla prima junction, a destra”. E infatti, dopo qualche chilometro vediamo delle tende. Siamo finiti nella zona dove alloggia lo staff, però siamo nel posto giusto. Esce da una tenda un tizio con un foglietto con su scritti i nostri nomi e ci porta alla reception, dove ci accompagnano (scortati da un bufalo che bruca distratto) al nostro alloggio.
La pianura di Serengeti è di circa 30.000 chilometri quadrati (non a caso, in lingua Masai serengeti significa pianura sconfinata). L’80% di questo territorio (la parte meridionale) appartiene alla Tanzania, mentre la parte nord è in Kenya. Si calcola che vivano in questa pianura oltre un milione e mezzo di erbivori. Gli gnu danno vita ogni anno alla cosiddetta grande migrazione, spostandosi da nord a sud e attraversando i fiumi Mara e Grumeti. E’ qualcosa che tutti conosciamo bene grazie a decine di documentari. L’immagine più gettonata è il coccodrillo appostato nelle acque basse che cerca di beccare lo gnu che guada il Mara. La migrazione avviene in novembre, ma le retroguardie sono ancora in azione e in effetti si incontrano centinaia e centinaia di gnu ovunque.
Il parco nazionale occupa circa 15.000 chilometri quadrati. Area protetta durante l’amministrazione coloniale tedesca, riserva di caccia nel 1929, fu dichiarato parco nazionale nel 1951 dagli inglesi, che ne affidarono l’amministrazione al tedesco Bernard Grzimek, ex direttore dello zoo di Francoforte e passato alla storia come il vero precursore all’approccio moderno alla conservazione dell’ambiente. Grzimek vinse nel 1960 il premio Oscar per il documentario Il Serengeti non deve morire. Durante le riprese del film, nel 1959 morì suo figlio Michael, che era a bordo di una aereo che precipitò.
Al Kati Kati siamo ovviamente motivo di curiosità perché non abbiamo una guida, ma non c’è nemmeno una guida disponibile (dopo tutto, è il giorno di Natale) e il cuoco (che ci ha presi estremamente a cuore, ma io capisco il 30% di quello che dice…) ci mette in contatto con un sosia di Forest Whitaker che accompagna un gruppo di svedesi ed è felicissimo se ci accodiamo a lui.
Partiremo alle prime luci dell’alba. Intanto familiarizziamo con la tenda, che si raccomandano di chiudere sempre e di non abbandonare dopo il tramonto senza chiamare qualcuno dello staff che ci scorti (ci sono lampada e fischietto per attirare l’attenzione). Non c’è acqua corrente, quindi per fare la doccia si usa un serbatoio che va riempito di volta in volta. Se volete dare fastidio allo staff, chiedete di fare la doccia prima di uscire per il safari (a proposito: in Swahili il significato di safari è semplicemente viaggio), perché questo li costringerà a venire a riempire il serbatoio con il buio, quando per il campo non si sa bene quali animali possano circolare.
La vita al campo scorre tranquilla. Lo staff si fa essenzialmente gli affari suoi dopo che i turisti sono usciti all’alba e prende in considerazione la presenza degli ospiti da una certa ora del pomeriggio. Non è previsto che si rientri a pranzo e anche qui spuntano i cestini tipo quelli del Rhino Lodge, con la stessa coscia di pollo fredda e altre leccornie. Io ero abituato che si usciva per il safari e poi si rientrava per colazione, ma quando faccio la stessa proposta al Kati Kati semino il panico. Quindi (noi stiamo una notte sola), cambio rapidamente programma: usciremo con il nostro bel cestino per non fare ritorno.
Davanti alla tenda c’è una bacinella per fare il bucato. Sembra ridicolo, ma quando si finisce una giornata all’interno del Serengeti, considerando che si viaggia su macchine che hanno il tetto aperto, si ha terra ovunque e lavare i vestiti non è poi un’idea malvagia. Oltre a lavare sé stessi, naturalmente. Non dimenticherò quanto si sono sporcati i cotton fioc nelle mie orecchie, dopo la doccia.
Alle 18.30 accendono il fuoco, che ha lo scopo romantico di radunare i visitatori a guardare il tramonto ma anche quello pratico di tenere gli animali lontani dalle cucine, dove preparano con la massima cura una cena veramente molto abbondante e di qualità. Costa caro (oltre 500 dollari a notte) il Kati Kati, ma sinceramente il servizio vale la spesa.
Prima dell’alba il Kati Kati è un posto fantastico. L’atmosfera è di pace assoluta e contrasta un po’ con una notte nella quale il sonno non è stato troppo riposante anche a causa di un bufalo che ha gironzolato attorno alla tenda e poi si è accomodato lì a fianco per dormire. Prima delle 6.30 non si può uscire, ma gli svedesi di Forest la tirano un po’ per le lunghe e va a finire che lasciamo il Kati Kati verso le 7.
Temevo che dedicare un solo safari al Serengeti potesse essere un errore, ma a conclusione della giornata mi sono appuntato che, in fondo, andava bene così: non sarebbe stato possibile fare un safari migliore, quindi era bene tornare con quel solo ricordo. Ricordo di una mattina di cui parlerò per anni.
Il giorno di Santo Stefano a Serengeti siamo stati davvero al vertice della catena alimentare. Delle famiglie di leoni ho già scritto, quindi qui parlo dal ghepardo, il primo incontro di giornata. Era là in mezzo a una spianata. Spuntava la testa, con quelle orecchie atipiche per un felino e anche un po’ piatta, e tutto il collo. Poi il ghepardo è uscito dai cespugli, ha fatto qualche passo e si è stirato allungando le zampe anteriori. Quindi si è allontanato elegantissimo, con la sua coda enorme a fungere sostanzialmente da timone.
A vederlo correre, il ghepardo sembra che voli. Dovrebbe raggiungere, per quanto per brevi tratti, i 120 chilometri orari. In Inglese il ghepardo si chiama cheetah, un termine che deriva dal Sanscrito chitraka (ovvero macchiato). Questo animale fu in effetti osservato inizialmente in India, dove era una volta molto diffuso ma oggi è praticamente estinto. E anche in Africa il ghepardo non ha vita facile. Caccia infatti sullo stesso terreno del leone, quindi quando le prede non abbondano fatica a procurarsi il cibo. In Sudafrica e Namibia infatti i ghepardi escono dalle zone protette e si dedicano a cacciare il bestiame, con l’ovvia conseguenza che gli allevatori li abbattono. Questo in effetti è il primo ghepardo che vedo in libertà. In precedenza, avevo visitato comunque un centro di recupero in Namibia e notato che il ghepardo tende a trovarsi tutto sommato a suo agio vicino agli esseri umani. Non a caso, ci sono stati casi in cui i cuccioli sono stati allevati per aiutare l’uomo nella caccia. Ho verificato un episodio direttamente (grazie ai ricordi di famiglia di un amico) avvenuto durante la cosiddetta AFIS (Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia; 1950-1960) ad opera di un ufficiale dell’Esercito Italiano.
Il ghepardo che osserviamo non corre, ma non posso fare a meno di notare che ricorda più un levriero che un felino, specie se si osservano con attenzione le zampe posteriori. Avvicinandosi (che resta una pratica sconsigliabile), noteremmo che il ghepardo non ha le unghie retrattili.
Un animale che in Africa è più presente di quel che si possa credere è il leopardo. Essendo schivo e tendente a mimetizzarsi nel fogliame, non è sempre facile vederlo. Noi però ne avvistiamo ben 2 che si stanno riposando su un albero e, di fatto, si mettono in posa. Poi scendono dall’albero (da buoni gattoni, affrontano con molta più cautela la discesa, rispetto alla salita) e, fatti pochi passi, spariscono alla vista.
Stando alla leggenda, il leopardo è un animale crudele, che uccide anche per soddisfare il proprio piacere e non solo per nutrirsi. Mi è abbastanza difficile crederlo fino in fondo, ma ci sono casi in cui i leopardi attaccano gli uomini unicamente per rappresaglia. Succede in particolare quando si cerca di allontanarli dalla zona che hanno scelto, visto che sono animali fortemente territoriali. Sull’argomento (il soggetto erano i leopardi indiani) ha girato un servizio (trasmesso da un canale TV specializzato) il giornalista scozzese Buchanan. Vicino a Mumbai i leopardi sono stati tanto maltrattati da aver agito in gruppo per vendicarsi degli uomini e causando oltre 50 morti. Parlando dell’Africa, su YouTube si trova il filmato di un leopardo che, dopo essere stato catturato e portato lontano dai centri abitati, si rifiuta di uscire dalla gabbia e, a evidente scopo vendicativo, entra nell’auto dal finestrino e aggredisce il malcapitato Ranger che lo aveva colpito allo scopo di farlo uscire dalla gabbia. Un calcio fortunato dell’uomo espelle il leopardo dall’auto, ma le ferite subite dal Ranger sono serie.
Avendo visto 4 dei 5 Big Five, decidiamo che Forest merita una mancia rispettabile (15.000 scellini, poco meno di 15 dollari). Dopo una pausa al centro visitatori (dove ci chiedono se abbiamo trovato il Kati Kati…essendo ancora vivi, indubbiamente sì), procediamo senza indugio verso l’uscita del Serengeti. In effetti, il safari prosegue, perché vediamo centinaia di gnu, gli ippopotami a bagno in uno stagno, un intero branco di iene, una mandria di elefanti con diversi cuccioli. Insomma, è una giornata esaltante.
Ripercorriamo il tratto che congiunge il Serengeti con Ngorongoro, un’area verdissima dove i Masai allevano di tutto, compresi i cammelli.
Lasciando il Serengeti mi viene in mente che è qui che, con ogni probabilità, l’umanità ha avuto origine. Ci sono infatti prove inconfutabili che i primi ominidi hanno vissuto qui. E mi chiedo se la storia del Mal d’Africa, che colpiva i primi visitatori una volta lasciato il Continente, non abbia per caso a che fare con questo: un’inconsapevole desiderio di tornare a casa.