Spiegato qualcosa di più del progetto “Le mie bestie”, possiamo tornare al Kenya e alla visita al parco Amboseli
C’è una immagine che si trova più o meno su tutti i depliant turistici: un branco di elefanti che si sposta e il Kilimangiaro sullo sfondo. Il bello del Kilimangiaro è che si tratta di una di quelle montagne che è possibile vedere dalla base alla vetta. In teoria, perché ho già spiegato che io l’ho visto in 2 parti: dalla base a metà da terra e da metà alla vetta mentre ero in volo da Zanzibar a Nairobi. E in nessuno dei 2 casi sono riuscito a fare una foto decente. Comunque, il Kilimangiaro è una montagna come le disegniamo da bambini e per quel che riguarda gli elefanti, quelli non mancano.
Stando all’ultimo censimento aereo, gli elefanti di Amboseli sono circa 1.300. E in effetti (indipendentemente dalla presenza del Kilimangiaro sullo sfondo), vederne è abbastanza semplice.
L’elefante africano è il più grande animale terrestre. Un maschio adulto arriva a superare anche i 6 metri di lunghezza e a toccare i 4 metri di altezza. Ovviamente, l’elefante si nutre in proporzione: arriva a consumare 300 chili di cibo (erba, ma anche fogliame, corteccia, frutti) al giorno. Produce anche escrementi in proporzione: tipo 250 chili al giorno. Non è un dato messo lì per sorridere: lo sterco dell’elefante è usato (come abbiamo visto) dai Masai come combustibile per accendere il fuoco ed è l’ambiente nel quale proliferano i cosiddetti scarabei stercorari, che ci trovano nutrimento e vi depositano le uova. Nella savana, nulla succede per caso.
Forse è successo per caso, ma l’arrivo dell’uomo ha danneggiato non poco gli elefanti. Come è noto, sono stati cacciati indiscriminatamente per le loro zanne (il nome scientifico dell’elefante, lexodonta, significa dente obliquo), che sono d’avorio. Si tratta di un materiale da tempo immemorabile utilizzato per la produzione di utensili (è relativamente facile da intagliare e rimane bianchissimo) e che viene ritenuto prezioso, per quanto da parecchio tempo la lavorazione di questo materiale sia finita in disuso in Europa e, anche quando, si potrebbe sostituire l’avorio delle zanne d’elefante con quello artificiale (prodotto fin dal 1800). In Asia comunque per l’avorio c’è molto mercato. Vengono intagliati in avorio soprattutto oggetti religiosi o, questo in alcuni paesi arabi, manici di pugnali e altri oggetti da difesa personale. Non esiste una quotazione ufficiale dell’avorio, anche perché è in teoria illegale vendere oggetti in avorio che non siano d’antiquariato (lavorati prima del 1947). Ma a Pechino un chilo lo si vende a 1.000 dollari. Mentre ero in Kenya, i giornali hanno dato notizia del sequestro di oltre 700 zanne d’elefante. Considerato che una zanna pesa mediamente 30 chili, si può dire che il sequestro potesse valere qualcosa come 21 milioni di dollari.
Isaac ad Amboseli cerca soprattutto i leoni, perché gli hanno detto che nei giorni scorsi si
aggiravano da queste parti 2 cosiddetti man eater (i mangiatori d’uomini, i leoni senza criniera: ne parleremo a tempo debito). Ma di leoni, non se ne vedono. E gli elefanti, Isaac rischia di farseli scappare. Addirittura, quasi ignora una mandria intera per chiedere a un fotografo professionale se per caso aveva incrociato i man eater in questione. Poi si ferma a chiacchierare con la guida di un’altra comitiva e una turista interviene anche lei nella discussione su come trovare i leoni.
Amboseli è un posto molto grande. Io i predatori li vorrei vedere sempre, ma è anche vero che ci aspettano altri 2 parchi in Tanzania e che è pur sempre meglio girare anche se non si sa dove sono i leoni, che star fermi a chiacchierare. Anche perché il parco le sue attrattive le offre. Ci sono 2 gru che improvvisano per noi una sorta di danza. Incrociamo poi la volpe dalle orecchie di pipistrello, ben strano animale. Che non sa se essere curioso o timoroso, quando ci vede. Poi ci sono giraffe e zebre.
A proposito di Tanzania: è Isaac che ci porta fino a Namanga, la città di confine. Che si presenta come ti aspetti che si presenti una città di confine africana: strada sterrata, cani randagi ovunque, diversi trafficoni locali e un po’ di europei, statunitensi e giapponesi che non hanno parole.
Mentre mia moglie si presta a scrivere una lettera di Isaac a una famiglia italiana (era partita come lettera di saluti, in realtà chiede soldi), io mi faccio riconoscere dal doganiere kenyota (“il suo passaporto è in condizioni inaccettabili, lo deve far rifare”) e gioisco perché la Tanzania fa pagare a noi europei 40 dollari di visto d’ingresso, mentre agli statunitensi ne chiede 100.
Isaac ci saluta. La sua radio sempre accesa non ci mancherà. Il nuovo autista ci guida fino alla città di Arusha e ci deposita al 4Js hotel. L’albergo è poco distante dalla strada principale e per arrivarci il driver fa una sorta di slalom tra le più svariate attività e anche tra i più svariati animali (galline, capre…). Devo ammettere che per un attimo ho temuto che fossimo finiti in un posto assurdo, ma in realtà il 4Js è più che decente. A parte la discutibile scelta di dare una sola salvietta per 2 persone e a parte il fatto che la manager Fatwa (secondo me, la figlia illegittima di Tina Turner) in verità non ci aspettava più: “Non avete risposto alla mia ultima e mail”.
Comunque, il 4Js è vuoto. E non solo Fatwa ci dà una stanza, ma ci assegna anche un’impiegata (Miriam) come scorta per andare in giro per la città. Arusha è il posto in Africa dove maggiore è la presenza di Papasi (letteralmente: zecche), i tizi che cercano di vendervi un Safari. Ma noi siamo già più che organizzati. Solo, dobbiamo recarci in banca perché al parco (per essere più precisi, la Conservation Area) Ngorongoro bisogna arrivare avendo già pagato in banca e dobbiamo recarci da Fortes, l’auto noleggio, dove ci vogliono vedere in faccia, visto che probabilmente siamo gli unici turisti a voler guidare da soli.
Ci mettiamo un po’, perché qui ad Arusha non è che sian velocissimi. Aruna, la titolare di Fortes, fa pressioni per una copertura assicurativa completa (250 dollari non previsti…) e poi confida che lei i suoi figli (che studiano in America) in Tanzania non li lascia guidare da soli. Miriam, in compenso, ci scrocca il pranzo.
Comunque, possiamo iniziare a conoscere la Tanzania.