Era equo il compenso di Roberto Benigni?

MUSICA, SCHIROPENSIERO, SPORT

Nei giorni scorsi ho commentato sulla mia pagina di Facebook il fatto che Roberto Benigni ha devoluto in beneficienza i 250.000 euro del suo compenso per la partecipazione al Festival di Sanremo. Alcuni miei Amici hanno approvato, altri hanno commentato. In breve, il tutto si è ridotto ad Il trionfale ingresso di Roberto Benigni al Festival di Sanremouna discussione tra me e un Amico con il quale (tra alti e bassi) polemizzo da 25 anni.
Roberto Ghiretti è stato un grande dirigente sportivo, oggi è Assessore allo Sport del Comune di Parma ed è apprezzato consulente di diverse organizzazioni. Il motivo del contendere è (semplifico) la moralità di un compenso da € 250.000 per una serata.
Visto che a forza di post su Facebook non se ne esce (anche se Roberto ha scritto un agrodolce “mi arrendo”), provo a spiegarmi meglio sull’argomento utilizzando le mie pagine web.

Quando parliamo del Festival di Sanremo siamo nel campo dello Show Business propriamente detto. E quando parliamo della Rai, ci riferiamo ad una grande azienda a tutti gli effetti sul mercato. Business e Mercato sono termini che piuttosto spesso sfuggono alla sfera di quel che è giusto e dell’equità.
Io ritengo che la Rai abbia tutti i diritti di offrire 250.000 euro a Roberto Benigni per partecipare ad una sua serata. Il gradimento del pubblico (19 milioni di telespettatori, un televisore su due sintonizzato su Rai Uno) dà pienamente ragione alla scelta. Se poi parliamo della qualità dell’intervento, non c’è nemmeno da discutere. E lo stesso accade per l’affollamento pubblicitario. Ergo: la Rai poteva permettersi di spendere quel che voleva. E, allo stesso tempo, non avrebbe avuto quell’affollamento pubblicitario se i suoi venditori non avessero potuto esibire ospiti del livello di Benigni.

Mi faccio ancora più audace e dico che quella del fatto che la Rai intasca i soldi del canone è un’argomentazione usata a sproposito. Si può pensare quel che si crede, del canone. Ma sappiamo tutti che in verità si tratta di una tassa, non di un obolo alle casse della Rai. E comunque la Rai deve stare sul mercato e il mercato è questo, canone o non canone. Anzi, sarebbe anche meglio che il mercato avesse più di 2 player. Perchè, questo sì che è buffo, suona un po’ strano vedere volti della concorrenza destreggiarsi ai microfoni della televisione di Stato. Ma adesso sto divagando.

La polemica sul compenso giusto è un classico anche dello sport.
Ricordo le feroci polemiche per i 2 miliardi pagati dal Napoli per acquistare Savoldi dall’Atalanta negli anni ’70, la sollevazione popolare perchè la Juventus strapagava Baggio e la Fiat metteva in cassa integrazione gli operai negli anni ’90.
Non ho mai sentito nessuno, a parte il sottoscritto, far notare a Calisto Tanzi e al suo entourage che pagavano 9 miliardi di stipendio a Cannavaro con un monte abbonamenti che ne valeva 13, praticamente nessun altro incasso di biglietteria e uno sponsor che era anche il proprietario della società, una s.p.a. (società per sua natura a fine di lucro, quindi destinata a chiudere se non guadagna) senza patrimonio e quindi con nessuna possibilità di indebitarsi. Almeno, questo mi hanno insegnato a scuola. Poi, ho visto anch’io che la realtà funziona diversamente. E con che risultati, non serve sottolinearlo.
Quel che voglio dire: Cannavaro magari valeva 9 miliardi di stipendio, ma non era il Parma di Tanzi che poteva permettersi di pagarglieli.

In una Economia di Mercato, se uno riesce a rimanere sul mercato rispettando le regole può pagare a dipendenti, consulenti e collaboratori quel che costoro valgono, appunto, sul mercato.
Il problema sorge quando le regole non ci sono. Ad esempio, all’inizio degli anni ’90 Silvio Berlusconi aveva in mente un progetto di polisportiva Milan. Entrò nel baseball a piedi pari e portò il budget della squadra da 300 a 1300 milioni di lire.
Narra la leggenda che un giocatore si recò al colloquio con l’allora direttore del gruppo Fabio Capello pronto ad azzardare una richiesta, per poi trattare e accontentarsi anche di una cifra leggermente inferiore. Capello gli propose (“cerchiamo di non perdere tempo”) il doppio di quella che sarebbe stata la prima richiesta del giocatore. Che, ovviamente, se ne andò contento.
Questa è un’operazione che può essere interpretata come filantropia, non certo come una corretta gestione di sportbusiness. Se un socio conferisce un sacco di soldi, tecnicamente la società si indebita nei suoi confronti. Se la situazione debitoria non è una chiave per fare utili, prima o poi la società è destinata a chiudere. Un filantropo mette soldi a fondo perduto, un imprenditore allo scopo di realizzare un guadagno.

La Rai al Festival di Sanremo, il Milan nel campionato di calcio, la Universal Studios nel cinema sono imprenditori. Devono essere giudicati sulla base degli utili che producono alla fine dell’anno.
La stortura è che la Universal verrà giudicata in base alla differenza tra gli incassi dei suoi film e quanto ha speso per produrli, mentre il Milan sarà stato bravo se avrà vinto lo scudetto, indipendentemente da perdite di esercizio e debiti.
Per la Rai, è un discorso ancora diverso. Difenderà le sue scelte chi siede su determinate seggiole e le attaccherà chi siede su determinate altre. Lo scopo? E’ ovviamente rimanere su quelle seggiole.

3 thoughts on “Era equo il compenso di Roberto Benigni?

  1. approvo in pieno. e non perché lavoro alla rai. credo che benigni abbia ricevuto ciò che meritava. i dati d’ascolto sono stati pari a quelli di una semifinale del mondiale di calcio con l’italia in campo, dunque giusto spendere per offrire uno show di alta qualità. credo che benigni abbia sciorinato 53 minuti di alta televisione e se anche la rai ci avesse eventualmente rimesso (cosa impossibile)avrebbe comunque offerto al pubblico un servizio di elevato spessore culturale.

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