Classic 2006: Non riesco a coronare il sogno di incontrare Roger Clemens e “incasso” la lezione di Cuba

BASEBALL, World Baseball Classic 2006

Riporto qui le ultime 3 Cartoline dal Classic 2006. Ricordo bene che quel 16 marzo, prima di scrivere le righe che seguono con un computer a noleggio (e la sua tastiera americana: a correggere gli accenti ci sto provando, siate clementi se non trovo tutti gli apostrofi da convertire…), avevo ricevuto una simpatica telefonata: “Sostanzialmente, ti lasciamo in California in vacanza”. C’ero rimasto male e avevo pensato di trasformare il soggiorno effettivamente in una vacanza. Anche per questo inizio l’articolo parlando del mio tempo libero. Poi mi sono detto che la mia reazione doveva essere semplicemente scrivere quello che sentivo di dover scrivere. Compreso che speravo di vedere Corea e Giappone tra le prime 4, anche se questo sarebbe costato l’eliminazione degli Stati Uniti.

16 marzo- Qualche ora libera si spende volentieri, lungo la Pacific Coast Highway

Guidare la macchina sulla Pacific Coast Highway con il finestrino abbassato non ha eguali. Al contrario dei lungomare italiani, quella che è la strada numero 1 della California è piuttosto larga e chi la percorre sembra non avere mai fretta. Chi da queste parti ha i minuti contati (non parlo di poca gente…) preferisce le sopraelevate piu’ moderne.
Meglio per il sottoscritto, che oggi aveva qualche ora libera, un po’ perché c’è in programma una sola gara (in notturna) e un po’ perché un bambino ha pensato bene di telefonarmi in camera pensando di mettersi in contatto con i suoi famigliari. In quel momento stavo sognando di fare una telecronaca (devo essere effettivamente malato…) e non mi capacitavo di quel trillo che sovrastava la mia voce. Che strano risveglio.
Dicevo delle ore libere: le ho impiegate per arrivare appunto alla Pacific Coast Highway, che per me è un luogo mitico da quando ho letto Meno di Zero di Bret Easton Ellis. In questi giorni sta per iniziare il cosiddetto Spring Break per le High School e le Università, quindi l’aria che si respira nelle città costiere della California del Sud è piuttosto simile a quella di questo romanzo di culto. Ne riparleremo.

Venire in America per chi fa il mio mestiere è un po’ come fare un corso di aggiornamento. Sempre se si è disposti ad assorbire quel che giornali, televisioni e slogan pubblicitari mettono a disposizione. Quasi sorprendente, per chi ha fatto gli studi superiori da noi, sarà notare come il linguaggio di chi deve comunicare ad un pubblico sia semplice, a volte al limite del banale. Personalmente, sono del tutto d’accordo. Quando si vuol dire qualcosa, meglio dirla chiara. Tanto di equivoci ce ne sono talmente tanti, che é bene non complicarsi la vita da soli.
I canali televisivi americani sono invece difficili da seguire per l’immane attacco della pubblicità. Specie i telefilm sono interrotti con una frequenza quanto meno irritante. In questo senso, noi in Italia siamo riusciti a fare decisamente meglio.
Sfortunatamente, vedo che qui continuano a produrre reality show a getto continuo e questo mi lascia pensare che questi format sbarcheranno presto da noi. Ieri sera, ad esempio, ho visto uno stralcio di Elimidate. Un giovanotto (invariabilmente bello) si incontra con 3 ragazze (fotomodelle o qualcosa di simile) e deve sceglierne una. E’ una situazione talmente da sogno per qualsiasi essere di sesso maschile, che nessuno di noi vorrebbe mai essere ripreso da una telecamera in un contesto del genere. O forse qualcuno che vorrebbe lo conosco, ma certo non lo vorrei io. Comunque: il giovanotto e le 3 sventole sono chiaramente attori. Di reality in questo show non c’é nulla. Questi programmi sono semplicemente la versione pruriginosa per il video delle attrazioni di Universal Studios e Disneyland.

Venire in America per chi ha i miei problemi di peso è pericolosissimo, perché si é invitati continuamente a mangiare schifezze (junk food, dicono gli americani). Anche attori di primo piano, e dal fisico statuario, come Brad Pitt non aiutano. Ci avete mai fatto caso? Brad Pitt, che nella realtà è probabilmente seguito da un dietologo che gli misura la glicemia ogni 7 minuti, nei film ostenta sempre grandi spanzate di patatine, merendine, hamburger. Il tutto leccandosi avidamente le dita. Questo e’ davvero un messaggio ingannevole e scorretto nei confronti di noi poveri mortali, non trovate?
Per la mia salute è invece positivo andare allo stadio da baseball tutti i giorni, perché a questo modo ci si rende conto dei prezzi esorbitanti che hanno allo stadio i generi alimentari. Per una birra (carta d’identità alla mano, se dimostrate 40 anni o meno…lo prendero’ come un complimento) e i miei amati nachos si arriva a circa 13 dollari. Al Seven Eleven che c’e’ di fronte al mio motel gli stessi articoli costano un terzo. Viva il Seven eleven.

Sono abbastanza in ansia per il derby asiatico tra Corea e Giappone. L’ultima volta che ne ho visto uno portavo i pantaloni corti e si giocava il primo mondiale italiano. Dei coreani ricordo che scivolarono uno dietro l’altro a casa base. E che fu una scena certamente inusuale. Erano un altro Giappone e un’altra Corea, certo. Ma per me quello era il massimo del baseball che avevo visto fino a quel momento.
Sono curioso di vedere questa partita, e il prosieguo del torneo, perché il baseball coreano (e quello asiatico in generale) non sono usciti bene dall’ultimo biennio. La Corea non si è qualificata per le Olimpiadi, il Giappone ad Atene ha mancato la finale, Taiwan è stata sconfitta dall’Italia e ha mancato la zona medaglia.
Qui al Classic è diverso. La Corea è l’unica squadra imbattuta e il Giappone è certamente quella che ha fatto vedere di avere il miglior rapporto tra talento e disciplina. Sarebbe bello verderle tutte e 2 a San Diego, anche se questo significherebbe una mortificante eliminazione delle stelle USA di Buck Martinez.

Eccomi al lavoro a Petco Park di San Diego per le finali del Classic 2006

17 marzo- Messico e…sberle, per gli Stati Uniti

In questa cartolina inizio come un bimbo (che dentro di me è sempre presente) che si emoziona per la vicinanza dei “suoi eroi” e finisco con un’analisi che rappresenta uno dei miei cavalli di battaglia: per primeggiare nel baseball internazionale, dei tornei che si risolvono in pochi giorni e spesso su partite secche, bisogna conoscere quel baseball. Non semplicemente essere celebri…

In questo modo non vale! Mi ero preparato tutta la sera per l’evento della mia vita sportiva e un banale controllo anti doping (non so cos’altro potrebbero essere i “post game duties”…) me lo fa saltare. Questa sera potevo finalmente conoscere Roger Clemes, l’idolo degli idoli, l’uomo per il quale sono fin arrivato (quasi…) a tifare per gli Yankees. E invece no, non si è presentato e ha fatto sapere di non essere disposto a concedere interviste. Anzi, ha confermato l’addio al baseball (il momento per me è davvero ferale…un po’ come quando Gustavo Thoeni ha smesso di sciare o Francesco Moser di correre in bicicletta). Forse, lo ha confermato. Perché nel comunicato ufficiale del Classic c’è un sibillino “for now” (“per ora”) che non saprei cosa può significare.
Comunque, Clemens doveva esserci. Tutti i lanciatori partenti sono venuti in sala stampa. Anche Watanabe del Giappone, al quale nessuno poteva chiedere niente, perché aveva perso ma lanciando in maniera mostruosa e chiedere “Cosa provi per questa sconfitta” a un giapponese non è che sia chiaro cosa può provocare.
Comunque Clemens doveva esserci, ma non c’era. E’ iniziato un correre su e giù per le scale degli addetti alla sala stampa (che sono talmente tanti, che non so nemmeno il nome di tutti) conclusosi con un dignitoso (ma un po’ buffo) comunicato letto dal mio pari di USA baseball.

Che delusione. Quasi al livello di quella degli Stati Uniti, che si trovano sgambettati dal Messico per la seconda volta in 2 tornei e sempre con un beffardo 2-1.
La prima volta accadde a Panama nel novembre del 2003 e vi prego di non dire a nessuno di USA baseball che anche quella volta io c’ero, se no mettono una taglia sulla mia testa. Quella volta gli Stati Uniti si giocarono il posto ad Atene e io ho sempre avuto il sospetto che, contemporaneamente, il baseball si sia giocato la presenza ai Giochi di Londra. Ma quella volta c’erano i giovanotti dell’Arizona Fall League, mica questi miti stellari che solo a passargli vicino mi emoziono: Jeter, A Rod, Junior Griffey, Chipper Jones, Clemens
Allora come adesso, io do parecchie colpe al manager. Anche perché Buck Martinez ha scoperto adesso che forse era meglio iniziare a preparare il torneo in silenzio, anzichè concentrarsi sui passaggi televisivi.
 
Ancora una volta è stato dimostrato che sono le squadre ad imporsi in questi tornei. E non le selezioni. Perché a parità di valore tecnico, la differenza la fanno l’attitudine e l’abitudine a giocare partite che contano.
A stelle che costruiscono la loro fortuna su stagioni di 160 e passa partite, nelle quali c’è sempre tempo per rimediare ad una settimana storta, non è facile far capire che qui ci si gioca tutto nel giro di qualche ora. Per riuscirci, serve essere uomini di campo. Come Sadaharu Oh (manager del Giappone), che è un mito, ma anche qualcuno che va in campo tutti i giorni (con gli Yomiuri Giants). Che è immodesto, forse, ma anche umile abbastanza per studiare a fondo il baseball internazionale.

La comunità cubana di San Diego esprime senza equivoci il suo pensiero

21 marzo- La lezione di Cuba al mondo nella tranquilla San Diego

Anche in quest’ultima Cartolina del 2006 divido le mie considerazioni tra uno sguardo critico sull’America (non esagero, quando scrivo che preferisco gli uffici pubblici in Italia, con tutto il male che abbiamo sempre detto sugli uffici pubblici italiani) e gli approfondimenti sul torneo. Cuba l’avevo sottovalutata e lo ammetto senza mezzi termini. Mi piace rileggere quel che ho scritto sullo stadio di San Diego e la sua collocazione, specie oggi, quando si vuol costruire il nuovo stadio della Roma calcio a Tor di Valle, che è più vicina a Fiumicino che al centro della Capitale…

Se avete trovato problemi a relazionarvi con gli uffici pubblici italiani (e sono convinto che vi sia successo), vi auguro di non aver mai bisogno di un ufficio pubblico americano. Qui si può dire sia arrivato ormai alle estreme conseguenze l’utilizzo dei messaggi telefonici pre registrati. Hanno ormai studiato talmente tante possibilità di risposta automatica, che arrivare a parlare con una persona sembra un miraggio. E il più delle volte, la persona con cui si arriva a parlare legge una risposta pre confezionata, quindi a quel punto tanto valeva lasciare una opzione in più nel menu di risposte automatiche.
Questo modo di trattare gli utenti, mi spiace, è disumano. Si risparmieranno molti soldi e lo capisco, ma in questa maniera la gente si aliena.
 
Qui nella California del sud la vita procede comunque placida e piacevole. Sarà il clima (le temperature di questi giorni sono considerate irragionevolmente fredde…) e saranno gli spazi che tutti hanno a disposizione, ma le aspre contraddizioni che l’America è solita proporre, qui emergono meno. Anzi, quasi non si notano.
Ci si adatta piuttosto bene anche all’uso dell’auto come appendice del corpo che è reso necessario dalle notevolissime distanze che si devono coprire. In verità, San Diego in questo è abbastanza europea. Il centro è relativamente piccolo e l’immediata periferia è collegata con un cosiddetto trolley, un mezzo a rotaia che sta a metà strada tra il tram e la metropolitana.
Petco Park (lo stadio dei Padres ospita semifinali e finali del Classic) è a due passi dalle vie più chic del centro. Per intenderci: come se a Roma uno stadio fosse raggiungibile a piedi da via Condotti o a Milano si vedessero i pali dell’illuminazione da via Montenapoleone.
Mi rendo conto che la struttura delle città italiane renderebbe abbastanza difficile una scelta di questo genere, ma anche da noi si potrebbero costruire stadi (o comunque luoghi di aggregazione) nei siti dove si dismettono fabbriche. Qui a San Diego la nascita di Petco Park ha cambiato il volto al centro cittadino, che una quindicina di anni fa era piuttosto deserto e anche un po’ insicuro, tanto che il centro della vita notturna era Old Town, lo storico luogo della prima comunità statunitense in California. Quella dello stadio in centro è una scelta che io personalmente difendo con forza. Specie per il baseball, che gioca le sue partite in notturna e ha bisogno di giocarle in luoghi facilmente raggiungibili e sicuri.
 
Tra qualche ora la prima edizione del World Baseball Classic sarà storia. Non so voi, ma io sto imparando non poco da Cuba. Pur avendo, negli ultimi 4 anni, visto più partite di baseball internazionale di chiunque altro (dico in Italia…), io ero fermamente convinto che Cuba avrebbe fatto fatica ad andare oltre la prima fase. Avevo insomma sottovalutato il livello della seleccion, pur conoscendo i giocatori ad uno ad uno piuttosto bene.
Sia chiaro, io penso ancora che la dose di talento nei roster di Stati Uniti, Repubblica Dominicana, Venezuela, Portorico e Giappone sia molto più alta rispetto a quella che Cuba ha a disposizione. Però sono ormai giunto alla conclusione che quello di Cuba è un fenomeno di portata impressionante che merita tutto il mio rispetto. E anche qualche errata corrige rispetto a quello che ho spesso sostenuto.
Già ad Atene Cuba ha vinto senza essere la squadra più forte. Allora fu chiaro che il Giappone aveva preso l’Olimpiade come se fosse un tour della sua All Star, nel corso del quale vincere era una delle opzioni. Per Cuba invece vincere è  l’unica alternativa, sempre. E questo, alla fine, fa la differenza. 
Certo, ci sono anche aspetti spiacevoli. Ad esempio, le esigenze del singolo giocatore passano decisamente in secondo piano rispetto allo scopo della spedizione, che (ripeto) è vincere, senza mezzi termini. Rispetto Cuba, sia chiaro. Ma un po’ il loro atteggiamento mi spaventa.
Non mi spiego, per altro, come mai questo tipo di attitudine non abbia mai attecchito nel nostro baseball, nonostante i tanti anni di condivisione di progetti con Cuba. E’ una riflessione che forse dovremmo fare.
 
Chi vincerà? lo parto deciso: secondo me il Giappone. Lo dico perché tecnicamente mi ha convinto sotto tutti gli aspetti e perché mi piace il suo manager (non capisco una parola di quel che dice, ma la venerazione che tutti i giapponesi hanno per Saduharo Oh fa parecchia presa su di me).
In verità, anche Cuba tecnicamente mi ha convinto sotto tutti gli aspetti e sono un ammiratore del suo manager da quando era allenatore del Parma e lo seguivo su base quotidiana. Credo che Higino Velez rimarrà nella storia del baseball internazionale per la metamorfosi che è riuscito a far fare a Cuba, che non è più lo squadrone che fa tremare tutti “col sinistro suono delle sue mazze di alluminio”. Ma, come allora, vince sempre. E credo proprio che buona parte della formazione di Velez come manager del cambiamento sia dovuta ai suoi anni italiani. Questo giusto per dire che, quando si ha sul serio il desiderio di imparare, si impara ovunque e da chiunque e sul campo, senza fare dei gran corsi di specializzazione.
 In sintesi: secondo me vince il Giappone, ma Cuba ha fatto la più bella impresa del Classic. E ha dato una lezione a tanti. Anche a me.

Come è noto, vincerà il Giappone. Non scorderò mai la delusione espressa senza reticenza da Higino Velez in sala stampa dopo la finale. Quel giorno non mi salutò nemmeno con quel “ciao, fratello” con cui mi apostrofa dal 1995.
Oggi Higino Velez è il Presidente della Federazione di Cuba.

3-FINE